
[rating=4] Più di quarant’anni separano la prima rappresentazione bolognese di Jenůfa, nel gennaio del 1974, dall’attuale coproduzione, con il Théâtre Royal de La Monnaire di Bruxelles, approdata al Teatro Comunale felsineo, dov’era vivacemente attesa. La lunga gestazione dell’opera parte dal 1892. In quell’anno Leoš Janáček assistette a Brno alla rappresentazione del dramma La sua figliastra (Její pastorkyna).
L’autrice del testo era Gabriela Preissová, scrittrice e drammaturga boema particolarmente stimata dal compositore che già aveva utilizzato, per la seconda fatica lirica, un suo testo. Inizialmente parve poco convinto dal lavoro teatrale, giudicato non idoneo alla vestizione musicale, tuttavia, ben presto, si convinse del contrario, mentre la stessa Preissová rinnovava le proprie riserve, a causa della spigolosità del tema. Ma Janáček, ormai deciso a mettere anima e corpo al servizio della sfortunata giovane protagonista, redasse da sé, come d’abitudine, il libretto in prosa. Ultimato nel febbraio 1895, il testo conservò gran parte delle caratteristiche iniziali: medesima divisione in tre atti, stesso ordine di esposizione, poche scene tagliate e personaggi praticamente immutati. La tesi più accreditata sostiene che la stesura della partitura sia avvenuta in due momenti distinti. Tra il 1895 e il 1897 venne composto il primo atto, mentre gli altri due furono ultimati fra il dicembre 1901 e il gennaio 1903. Non meno intricato il lungo iter riguardante le varianti apportate, in gran copia, nel primo decennio del Novecento. L’attento Janáček preparò l’opera con anni di intenso approfondimento rivolto al teatro lirico europeo, al folklore moravo e slovacco, alla cadenza della lingua ceca. Quest’ultima riflessione, in particolare, lo spinse a concepire la musica come un vestito per il ritmo e gli accenti che stanno alla base della comunicazione quotidiana. La libertà assicurata alla scrittura vocale, non più condizionata dalle strutture musicali, consentì una caratterizzazione dei personaggi via via più accurata e veritiera. È questa, assieme alla frequente ripetizione di parole e frasi, una delle caratteristiche di rottura che maggiormente influirono sulla difficoltosa ricezione del pubblico.
La prima esecuzione, al piccolo Teatro Nazionale di Brno, il 21 gennaio 1904, non ebbe seguito e, prima di approdare a Praga, l’opera dovette attendere ben dodici anni. La messinscena bolognese è nelle mani del lettone Alvis Hermanis il quale firma regia e scenografia. Il gusto pittorico pervade l’intero spettacolo inserito in una cornice liberty, costituita dalla proiezione mobile di intricati arabeschi, dove il forte colorismo attrae l’attenzione, definendo i tratti bucolici del primo atto e quelli comunitari del terzo. Nell’ambito di questa lettura, ulteriormente rinvigorita dagli sfarzosi e tradizionali costumi di Anna Watkins, è il secondo atto a provocare una forte rottura, dall’effetto ipnotico sugli astanti. Le tinte più cupe fanno da sfondo all’interno dell’abitazione della sagrestana: l’angusto spazio malconcio, arredato alla bell’e meglio, suscita emozioni contrastanti che abbinano la crescente tragicità della situazione all’angoscia provocata dalle precarie condizioni di vita.
Il commento muto al precipitare degli eventi è affidato al disegno luci di Gleb Filshtinsky e alle coreografie di Alla Sigalova, nella ripresa curata da Anaïs van Eycken. Le danzatrici esprimono, attraverso la gestualità corporea, il peso sociale delle scelte che culminano, nella parte finale, con l’evocazione del ghiaccio invernale, custode della piccola salma del neonato.
L’affresco, di prorompente efficacia, trova riscontro nella determinata e minuziosa analisi dei personaggi. Tra tutti spicca Kostelnička, combattuta tra l’irreprensibilità morale della guida spirituale del paese e l’anelito volto alla tutela del proprio buon nome. Il soprano Angeles Blancas Gulín caratterizza a tutto tondo tanto l’aspetto materno, quanto quello comunitario della sagrestana. La duttilità scenica, sottolineata da un forte realismo espressivo e fisico, rafforza la prestazione vocale che affronta la scomoda scrittura, manifestazione tangibile dei profondi dissidi personali della donna. Il ruolo protagonistico spetta alla lettone Ira Bertman. Lo strumento appare subito di prim’ordine per musicalità, fraseggio, volume e timbro. L’ottima preparazione conferisce alla sua prova la credibilità indispensabile per tratteggiare compiutamente le molteplici sfaccettature nella maturazione della giovane sventurata.
Più deboli i due tenori impegnati nei ruoli di Laca Klemeň e Števa Buryja. Il primo, Jan Vacik, è teso in zona acuta e non sempre a proprio agio con la tessitura janáčekiana, benché la resa del ruolo trovi giusto riscatto nell’abilità attoriale. Il secondo, Ales Briscein, ha emissione meno asprigna e, nonostante difficoltà similari a quelle del collega, riesce convincente nel ruolo del debole e volubile Števa. Sufficientemente diligenti Gabriella Sborgi, nei panni della nonna Starenka Buryjovka, e Maurizio Leoni, in quelli del mugnaio Stárek. Valido il sindaco Rychtář di Luca Gallo, mentre Monica Minarelli, Rychtárka la moglie del sindaco, e Leigh-Ann Allen, la figlia Karolka, risultano vocalmente meno efficaci. Completano il cast Arianna Rinaldi, Pastuchyňa, Roberta Pozzer, la cameriera Barena, Sandra Pastrana, il pastore Jano, e Grazia Paolella, la zia Tetka.
Il coro del teatro bolognse, preparato da Andrea Faidutti, soffre di qualche disomogeneità ma nel complesso fornisce una prova valida. La concertazione dello slovacco Juraj Valčuha è vibrante ma allo stesso tempo al servizio della narrazione e delle voci. I colori e il fraseggio, ottenuti dalla non impeccabile orchestra del teatro felsineo, sono accattivanti e capaci di dar vita a una tappeto sonoro memore del sinfonismo tardoromantico. Al termine, nella sala gremita e festante, il successo è calorosissimo.