
“Se non finisce questa guerra che se ne fa il mondo della musica?” Questa domanda profonda come l’oceano che Puccini rivolse al suo editore proprio riferendosi alla musica del Trittico lascia disarmati per la sua attualità. Era il 1917, un mondo era in guerra. Da allora cento gli anni che ci separano dalla prima di New York dei tre atti unici Il Tabarro, Suor Angelica, Gianni Schicci: e un mondo è ancora in guerra.
Passano cento anni dunque dalla prima e passano dieci anni dalla prima modenese di questo Trittico firmato Pezzoli, ma né nel primo né nel secondo caso si avverte la benché minima sensazione di polvere. Occasione quanto mia ghiotta e rara, quella proposta a Piacenza i coproduzione con Modena da cui è partito lo spettacolo, e poi con Reggio Emilia e Ferrara, di assistere ad una produzione che raccolga insieme i tre atti unici nati dal genio pucciniano. Rappresentarne uno solo abbinandolo come a volte succede ad altre opere più o meno coeve significa mutilarne la natura, assistere ad un racconto senza capo o senza coda. Quindi assistere a queste recite significa poter assaporare una proposta culturale di primo ordine e assai gustosa.

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Di questa unitarietà tra i tre lavori di Puccini è ben consapevole la regista Cristina Pezzoli che con il suo lavoro ha firmato uno spettacolo bellissimo, non limitandosi a raccontare bene tre storie affiancate solo per il gusto del contrasto, bensì crea tre racconti che tra loro si “parlano”, quasi si intrecciano. La Pezzoli trova quindi delle basi comuni: da una lato il tema della morte affrontato in prospettiva centrale a tre punti di fuga, dall’altro lato la borghesia alle prese con i suoi conflitti interiori e la paura della “gente nova”.
La regia traspone l’ambientazione di tutte le opere tra gli anni 1915 ed il 1920, dando unità narrativa e lo fa avvalendosi soprattutto della parte visiva con i bellissimi costumi di Gianluca Falaschi. Unità sì, ma senza dimenticare la sostanziale differenza di carattere dei tre atti unici cui la musica stessa fa riferimento.

Così ne Il tabarro ci si trova di fronte un quadro post-impressionista in cui la luce stessa del tramonto settembrino ammanta la scena senza mai invaderla, resta una luce malata specchio del male di Michele: la depressione. Si fa specchio così di molti di noi e del nostro male più moderno.
In Suor Angelica il dolore penetra man mano nella vicenda arrivando ad illuminarla così violentemente da contrastarne ogni contorno arrivando a superare il realismo diventando quasi espressionista. Un quadro in in cui tutto diventa sempre più bianco o nero, ed in questi Angelica non trova più collocazione. Dei tre atti unici Cristina Pezzoni trova proprio in questo una chiave di lettura dinamica. Lo spettacolo si trasforma man mano col mutare di Angelica. Impressionante la scena finale, ad esempio, in cui le “sorelle” di Angelica si trasformano quasi in Erinni (riferisce la stessa Pezzoli in un’intervista); la redenzione viene vista in senso quasi laico e a “salvare” Angelica sono i suoi affetti più cari il bimbo e la sorella sposa.

Con Gianni Schicchi non ci si potrebbe aspettare poi di meglio, la lettura segue perfettamente la didascalia pucciniana: un noir dal carattere grottesco. Alla fine quello che resta è un senso di amara verità piuttosto che di commedia. Tutto merito dell’imressionante galleria dei personaggi di questo Schicchi, nella loro splendida caratterizzazione che non sconfina mai per altro nel macchiettistico; c’è sicuramente un richiamo a certi personaggi di Tim Barton, addirittura anticipandone alcuni come il cappellaio matto in Alice (film di tre anni posteriore rispetto questa produzione).
Il gioco della regia poi viene sorretto molto bene dalle scene di Giacomo Andronico che hanno il pregio di andare ben oltre al fatidico “funzionali” facendosi interpreti anch’esse dei tre atti. Eccellente l’utilizzo delle luci di Cesare Accetta riprese da Andrea Ricci: parte integrante dello spettacolo, creano momenti di rara poesia. Menzione a parte la riservo ai costumi di Gianluca Falaschi che hanno tutto quello che deve avere un costume di scena in uno spettacolo come questo e che spesso viene tralasciato: una precisa connotazione storica, una ottima sintonia con lo stato psicologico dei personaggi, una scelta cromatica adeguata alla scena. Tutti è tre gli elementi visivi dello spettacolo quindi concorrono verso un unico intento registico, raggiungendo così un livello di alto impatto teatrale.
Per chi volesse vedere questo spettacolo e non può essere presente alle prossime recite, è in commercio un DVD che chiaramente consiglio.
I tre atti unici che compongono il trittico però non funzionerebbero così bene se oltre ad una regia ben studiata non vi fosse anche una controparte teatral-musicale di altrettanto livello. Ed in questa produzione troviamo forse quanto di meglio si possa pretendere oggi per pagine così complesse.
Doverosa una premessa: interpretare opere brevi, contrariamente a quanto si possa pensare, comporta seri rischi per gli interpreti che si trovano in scena per quasi tutta la durata dell’atto unico obbligandoli ad una concentrazione costante. L’interprete infatti si trova ex abrupto nell’azione drammatica e questo lo chiama a darsi completamente da subito. Ecco perché presentare nell’arco della stessa sera un doppio, o, addirittura triplo personaggio pone chiunque in grave cimento sia vocalmente, sia fisicamente.
Impressionante è stata la prova di Ambrogio Maestri, qui impegnato nel doppio ruolo di , Michele e di Gianni Schicchi. Nel primo, che quasi gli difetta per la tessitura piuttosto grave, ha costruito un personaggio autentico e di proporzioni impressionanti. Tanto era grande la voce e la presenza scenica, tanto più strideva con la sua assenza alla vita. Ambrogio, attore comico per natura, ha saputo tratteggiare un personaggio di un’umanità disarmante interamente cesellato tra mezze voci e suoi pieni di grande contrasto emotivo: impressionante la frase “Quando tu m’amavi” seguita da “resta vicino a me!” come ultimo disperato ritorno alla vita. In Gianni Schicchi, solo dall’incedere in scena capisci che Ambrogio trova nella comicità, o meglio nell’autoironia, la sua vera natura d’elezione. Niente è lasciato al caso ovviamente, ma tutto sembra così spontaneo e naturale da pensare che certe frasi non possano essere dette altrimenti meglio. I mezzi vocali di Maestri sono qui piegati in una interpretazione comica ma sempre sorvegliata e nobile, in un canto espressivo, morbido e sul fiato.
I panni di Giorgetta e di Suor Angelica sono vestiti molto bene, anzi benissimo, dal soprano Anna Pirozzi. Ottima la sua prova in Tabarro cantata con grande trasporto e partecipazione, la voce è potente e costantemente tenuta a galla sull’aria è ben proiettata in “maschera” permettendole smorzature e pianissimi di pregio che riempiono di armonici la sala. Saggiamente evita l’utilizzo di un registro di petto eccessivo ma resta un’emissione mista dando omogeneità ad un mezzo vocale tra i più interessanti. Anna è in Suor Angelica che però raggiunge il massimo. La commossa partecipazione al personaggio sborda in platea come un fiume in piena, crede al proprio personaggio e ci crediamo di conseguenza anche noi. Davvero difficile pensare di poter sentire un “Senza mamma” più commovente e vero. I la del finale sono coltelli affilati e quando alla fine la musica finisce sarebbe stato corretto un commosso silenzio.

Lascia senza parole la prova magistrale di Anna Maria Chiuri nei triplo (!) ruolo di Frugola, Zia principessa e Zita. La completa padronanza tecnica del mezzo vocale le permette di calarsi in ogni personaggio, capace di una immedesimazione completa ed espressiva. In Frugola è riuscita a ritagliarsi un momento di magica sospensione con la sua interpretazione tutta a fior di labbra ed a mezza voce della canzonetta “Ho sognato una casetta”. Sicuramente in Zita trova anche la Chiuri, così come già detto di Maestri, una sua ragion di vita grazie ad una vis comica innata dandone un ritratto grottesco ed ironico senza eccessi. Nei panni della Zia principessa costruisce un personaggio prosciugato dall’odio: studiato in ogni singolo gesto, in ogni fissità o sguardo giganteggia in scena. Potrebbe anche far senza aprire bocca per capire tutto di questa donna: la discesa lenta nel parlatorio, il martellante uso del bastone fino alla fredda immobilità alle richieste di sapere del figlio da parte di Angelica; una prova attoriale memorabile.

Bellissime e ben sostenute anche le parti secondarie in cui ha dato bellissima prova Rubens Pelizzari con il suo Luigi. La voce squillante e rotonda gli permette di dare una visione appassionata del giovane amante rendendolo assolutamente credibile. Bellissimo il suo intervento Hai ben ragione e seducente quanto serve nel corso del duetto con Giorgetta. Al suo fianco figura un ottimo Talpa di Francesco Albanese.
Accanto a loro il giovanissimo Marco Ciaponi, proveniente da opera laboratorio qui a Piacenza e di cui abbiamo già parlato nei mesi scorsi, appare più a disagio nel ruolo del Tinca, riservandosi di dare il meglio di sé nel Rinuccio del Gianni Schicchi. Sia scenicamente che vocalmente è perfetto: il canto sorvegliato e dispiegato, lirico e pieno, dal timbro morbido e bellissimo ne fa sicuramente un altro giovane talento da tenere d’occhio. Nulla da dire se nono in bene per la prova di Francesca Tassinari nel ruolo di Lauretta che con lui costruisce un ideale duo amoroso. Spigliata, la voce fresca e ben emessa ha trascinato il pubblico nell’incanto della celebre O mio babbino caro attirandosi i meritati applausi.
Tutto il resto del cast ha completato il lungo cartellone ottimamente, cosa quanto mai richiesta in partiture come queste dove anche le voci fuori campo hanno una parte significativa alla buona riuscita dello spettacolo. Menzione particolare va a Giovanni Castagliuolo (Gherardo), Giulia De Blasis (Nella), Valdis Jansons (Betto di Signa), Francesco Milanese (Simone), Fellipe Oliveira (Marco), Alice Molinari (La Ciesca) e Serena Cusimano (il piccolo Gherardino) i “parenti serpenti” di Buoso Spinelloccio. Tutti hanno dato di un’eccellente prova attoriale e vocale ed i loro personaggi si intrecciavano così bene da far pensare ad un’unica persona a più gambe con effetti amaramente esilaranti.
L’Orchestra Regionale dell’Emilia Romagna ha dato vita ad un’ottima prova sotto la guida del Maestro Aldo Sisillo, che ha prediletto più l’aspetto lirico che non quello contemporaneo, ma comunque si è trattato di una buona concertazione che teneva in alta considerazione sia le voci sia ciò che succedeva in scena.
Ottimi poi il Coro della Fondazione Teatro Comunale di Modena diretto dal Maestro Stefano Colò e la Scuola voci bianche della Fondazione Teatro Comunale di Modena istruiti dai Maestri preparatori Paolo Gattolin, Melitta Lintner.
Alla fine il pubblico ha salutato calorosamente gli artisti, tributando il successo della serata.