
Al Teatro Carlo Felice di Genova Alvis Hermanis mette in scena la cupa opera di Verdi I Due Foscari, sotto la direzione di Renato Palumbo.
Composta nei cosiddetti “anni di galera”, subito dopo la messa in scena dell’Ernani, e andata in scena nel 1844, per quest’opera Verdi si concentra su soggetti che pongono al centro la psicologia dei personaggi: sceglie così l’opera teatrale omonima The two Foscari di George Byron, un soggetto “delicato e assai patetico”. Al centro, il forte conflitto tra dovere e sentimento, tra amore paterno ed etica. La vicenda, che getta un’ombra sinistra su un periodo e una città, mettendo in luce una Venezia rinascimentale dissoluta e avida, pone al centro “protagonisti immobili” che non hanno la stessa resa in musica come nel dramma byroniano: la tinta generale rimane tragica e fosca senza cambi di registro e colpi di scena. L’opera è comunque un tassello importante di una ricerca che darà appena pochi anni dopo i suoi migliori frutti.

Alvis Hermanis conserva questa immobilità di registri anche sulla scena, con protagonisti monolitici, tinte patinate a evocare la nebbia veneziana e lo stato allucinato e metaforico del protagonista, tra sogno e stato di coscienza alterato. Il lavoro filologico si riscontra nelle proiezioni di pittori veneziani del Quattrocento, a cui il registra si è ispirato insieme a Kristìne Jurjàne e ai suoi bei costumi in stile. Il risultato però non è dei più soddisfacenti: la patina d’oro contribuisce a trasmettere all’opera un’ulteriore staticità, le proiezioni non risultano poi così originali, e lo stato allucinato del Doge si risolve nel risvegliarsi in prigione accerchiato da una folla di leoni alati (anch’essi monolitici) ed infine nel suo letto, in vestaglia, circondato dai Dieci, nel culmine tragico dell’opera. Anche le coreografie di Alla Sigalova non convincono: i mimi-danzatori, che dovrebbero incarnare quel mondo di menzogna e illusione che è la Venezia dell’epoca, in realtà con i loro movimenti didascalici non arricchiscono, ma banalizzano la messinscena cascando in cliché di dubbio gusto.

Buona prova per il cast, dove indubbiamente spicca per presenza scenica e attoriale Franco Vassallo, un Doge intimamente dilaniato che dà il meglio di sé nella scena principe dell’ultimo Atto, quando esprime tutto il suo dramma interiore con voce piena, travolgente e appassionata.
Angela Meade, seppur scenicamente statica, dà prova di sicura presenza vocale, con un bel fraseggio, e delineando una Lucrezia sofferta, che percorre con voce potente anche il registro più scuro sopranile. Fabio Sartori disegna un Jacopo fiero e orgoglioso, deficitario forse di una più dolente malinconia. Meno convincente Antonio Di Matteo nei panni del vendicativo e manipolativo Loredano, con un’emissione a tratti forzata.

Bella prova per il Coro, diretto dal Maestro Claudio Marino Moretti, e per l’Orchestra, che sotto l’accorata direzione di Renato Palumbo, ha esaltato i colori ora intimi ora travolgenti della partitura verdiana.
Applausi sentiti dal numeroso pubblico in sala.