The counselor – Il procuratore di Ridley Scott

[rating=4] Qual è il senso della vita? Ma soprattutto, ha davvero senso chiederselo? Improvvisamente sembra che la prima domanda non sia quella più difficile e controversa. Almeno non quanto la seconda. Ecco, Il procuratore di Ridley Scott fa proprio questo: ti pone quasi a bruciapelo la prima domanda e la ripete ossessivamente a ogni cambio di scena, per paura quasi di dimenticare l’obiettivo del viaggio. Ma dopo un po’ ci si rende conto che quella richiesta ossessiva altro non è che un pretesto, un indizio, un simbolo. Chiederselo non ha senso, perché è la vita stessa a non avere un senso. Eppure, nonostante le critiche negative di chi ha preferito arrendersi subito alla sua seduzione intellettuale bollandolo come pretenzioso e pseudo-intellettuale, questo film un senso ce l’ha, eccome.

Nato dalla penna del Premio Pulitzer Cormac McCarthy – alla sua prima sceneggiatura originale dopo aver ispirato con i suoi romanzi film del calibro di Non è un paese per vecchi e La strada, oltre all’upcoming Child of God – il nuovo lungometraggio di Scott converte splendidamente in immagini uno script fortemente verboso e denso di dialoghi letterari, che fa del ritmo frammentato il suo punto di forza. Punto di forza, tuttavia, accolto non troppo benignamente neanche in Europa in occasione della presentazione del film al Noir in Festival di Courmayeur svoltasi neanche un mese fa, il 13 dicembre 2013. Eppure perfino il pubblico europeo dovrebbe essere ormai abituato alla filmografia di un regista che negli ultimi anni si sta connotando di sperimentazioni inedite (si pensi a Prometheus nell’ambito dello sci-fi).

The counselor - Il procuratore di Ridley Scott

Una poetica del “quasi” direbbero in molti: quasi thriller, quasi noir, quasi action. Il tutto e, banalmente, il contrario di tutto, che a un occhio mal predisposto appare come niente. O meglio, niente di interessante. Eppure Il procuratore rappresenta un film riuscitissimo e perfino bello, proprio perché spiazza lo spettatore fin dalle prime scene. In questo la qualità “cinematografica” della scrittura di McCarthy è evidente, come è evidente l’assoluta magnificenza della regia Ridley Scott, capace da un lato di rispettare (quasi) fedelmente la parola dello script e dall’altro di dar vita all’atmosfera ideale per un film dal villain invisibile che appare come la personificazione stessa del destino. La tematica noir del dominio del caos sulla vita si scontra felicemente con l’iperbole della morte e della sessualità, autentiche protagoniste di un film che instaura un vero e proprio clima di terrore percepibile nei discorsi, nelle espressioni e nelle rievocazioni delle agghiaccianti imprese del “cartello”, entità impalpabile che si palesa solo quando uccide. Tale è l’abilità della coppia McCarthy-Scott nel combinare humour nero e nichilismo, in un turbinio sempre più efferato di aneddoti e minacce, che alla fine lo spettatore accetta la negazione della prima regola del cinema hollywoodiano del “mostrare” ogni dettaglio. Al pubblico non serve conoscere il contenuto del DVD recapitato nel finale al protagonista, braccato da questo destino invisibile e innominato egli stesso: l’intero disegno del film suggerisce già di suo la tragicità della punizione, al punto che non è importante mostrare – appunto – nemmeno la fine del personaggio principale, perché ciò che si intuisce è peggiore (?) di qualunque visione.

The counselor - Il procuratore di Ridley Scott

Il risultato è luminoso, come il diamante perfetto descritto nella scena in cui l’avvocato (Michael Fassbender) sceglie il regalo di fidanzamento per la sua amata (ben interpretata da Penelope Cruz, brava nel farsi ricordare anche per un ruolo secondario e accessorio): “Il diamante perfetto sarebbe fatto di sola luce. La verità è che di un diamante possiamo soltanto trovare dei difetti. Siamo cinici”. E diamanti perfetti sembrano essere gli occhi di Fassbender, uno che potrebbe recitare usando soltanto le pupille e che si dimostra impeccabile nella restituzione al pubblico di un personaggio fragile e positivo, che quando viene scaraventato all’interno di un mondo spietato rivela la sua fondamentale inettitudine alla vita. L’ambiente del narcotraffico tra Stati Uniti e Messico è troppo per un semplice avvocato come lui, che mai avrebbe pensato di entrare nel giro se non fosse pressato da gravi (si presume, nel grande pentolone del “non detto” del film) difficoltà economiche. Si tratta di un mondo a parte popolato di personaggi borderline come Reiner, socio in affari (loschi) di Fassbender interpretato da uno Javier Bardem ai livelli (e forse oltre) della prestazione in Non è un paese per vecchi e sempre più bestia sacra di McCarthy. L’attore spagnolo dà vita a una maschera kitsch dal sorriso inquietante, demone contemporaneo che in una schiera di attanti fuori dal normale risulta secondo per iperbole soltanto al personaggio di Cameron Diaz, perfetta incarnazione dell’America ferina descritta nelle pagine di McCarthy. Una (very) dark lady con gli occhi e il cuore di ghiaccio di chi ha viaggiato sempre più veloce della vita, capace di provare qualcosa soltanto per i suoi due ghepardi domestici e per l’eccesso, sessuale o materiale che sia.

The counselor - Il procuratore di Ridley Scott

La prova d’attrice della Diaz in un ruolo per lei inedito è a dir poco da antologia, poiché riesce nella difficile impresa di dare credibilità al carattere più paradossale di tutti, in barba alle rughe e lontana dalle smorfie ammiccanti che l’hanno resa famosa. Nella rete letale che lei riesce a stendere su tutti i personaggi che incontra, finisce tra gli altri anche Brad Pitt, interprete di un mediatore (Westray) che sputa sentenze e sarcasmi sotto la tesa del suo cappello da cowboy, evidente tributo al ruolo che lo presentò al grandissimo pubblico in Thelma e Louise (per la regia, guarda caso, di Ridley Scott). Un cast stellare, insomma, al servizio di un’opera elegante e tragica, spaccato amarissimo di un mondo nel quale le scelte umane si scontrano contro lo strapotere del destino, forza sfuggente che svuota di senso e coerenza qualunque azione compiuta dagli individui. Non a caso è “Sono famelica” la battuta di chiusura del film e del personaggio della Diaz: proprio come la donna-ghepardo, anche lo spettatore esce rimpinzato di suggestioni e paradossalmente affamato. La frammentazione delle scene e del senso del film non è che una provocazione, un invito a ricercare i significati al di là dei passaggi chiave, nella destabilizzazione del tutto. E poco importa se adesso non lo capiamo. Fra qualche anno, magari, si riparlerà di un gran film criticato all’inizio perché troppo indefinito. Quando forse eravamo noi a non saperci definire.

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