
Una donna in vestaglia siede su una poltrona di ferro con gli occhi sgranati e il corpo immobilizzato. Chiama il centralino: cerca aiuto, ma le parole si spezzano, le sillabe si confondono. Le si sciolgono in bocca, troppo lente o troppo rapide per essere afferrate. Intorno a lei, sbarre e gabbie metalliche creano uno spazio freddo, geometrico, claustrofobico. Tutto è in tensione, tutto trattiene. Inizia così Le Gratitudini, adattamento teatrale del romanzo di Delphine de Vigan diretto da Paolo Triestino.
Lo spettacolo segue l’ultima fase della vita di Mitchka, ex correttrice di bozze colpita da una sindrome afasica, cioè un disturbo neurologico che compromette la sua capacità di usare il linguaggio. Dopo il trasferimento in una casa di riposo, la sua quotidianità si restringe in un sistema rigido: pasti a orari comandati, visite incasellate in un regime carcerario. Una condizione di immobilità che investe il corpo, la mente, le relazioni.

Mitchka perde le parole, confonde “posposto” con “risposto”, dice “fa pena” invece di “va bene”. Il linguaggio si disfa, mentre la lucidità resta. Vuole rifarsi il letto da sola, custodire il suo whisky, decidere della propria vita (e della propria morte). A trattenerla nel mondo sono pochi legami: Marie (Valentina Bartolo), una giovane vicina con cui ha costruito un’intimità profonda, una sorta di famiglia; l’ortofonista (Pierluigi Corallo), che la segue nelle sedute di riabilitazione; e il ricordo di una coppia che, da bambina, le salvò la vita nascondendola dalla deportazione. A loro vorrebbe dire grazie, finché può, prima che le parole si dissolvano del tutto.
Lucia Vasini restituisce Mitchka con misura e ostinazione, donandole dignità, intelligenza e un’ironia disarmante. Non c’è spazio per il pietismo: il corpo fragile non annulla la forza dell’identità. Mitchka rimane viva, testarda, anche comica. La sua battaglia è tutta nei dettagli, in quei piccoli atti di autodeterminazione che resistono all’annullamento del deterioramento.
L’adattamento si articola su due piani narrativi. Il primo – il più efficace – è affidato al dialogo tra i personaggi: uno scambio che scava nei gesti minimi, dove la quotidianità diventa terreno per il pensiero, l’incontro, la memoria, la commozione. Il secondo è composto da inserti metateatrali: interventi frontali in cui i personaggi rompono la quarta parete per commentare la vicenda, cercando di guidarne la lettura. Ma questi passaggi appesantiscono il racconto, sottolineano ciò che potrebbe essere lasciato in sospeso. È un gesto di sfiducia verso lo spettatore, che avrebbe potuto – forse dovuto – essere lasciato da solo dentro quelle pieghe dolorose, ma vitali. Una simile tendenza all’overexplaining caratterizza anche la resa degli incubi: scene grottesche, luci magenta, recitazione caricaturale alla maniera dei quadri di Grosz. Espedienti che cercano l’effetto e sacrificano la profondità.

Eppure, la materia narrativa è forte: vecchiaia, relazioni, famiglie scelte, memorie, rimorsi. Le Gratitudini è attraversato da soggettività laterali, non eroiche, non performative. Persone che entrano in relazione annullandosi nel silenzio, nella ricerca faticosa del dialogo privo di retorica. Purtroppo, talvolta, il dispositivo si irrigidisce. Si preoccupa troppo di veicolare un “messaggio” imposto, perdendo l’occasione di lasciare che la riflessione emerga per accumulo, per attrito, per omissione.
I momenti più intensi restano quelli non spiegati. Mitchka che inciampa nelle parole, combattendo contro l’incomunicabilità. I lapsus che creano empatia e persino ilarità: piccoli passaggi in cui la presenza si fa relazione. Una fatica condivisa, un esserci ostinato, contro la logica dell’io narcisistico contemporaneo. Cura al posto della connessione. (Ri)conoscimento invece che esposizione. È lì, forse, il centro emotivo dello spettacolo. E, se lo si lascia parlare da solo, funziona.