Quando L’anatra all’arancia risulta un po’ indigesta

Emilio Solfrizzi serve al Teatro Piccinni di Bari una pietanza sbilanciata

L’anatra all’arancia - © ph Riccardo Bagnoli

L’anatra all’arancia è un piatto di antiche origini italiche – il papero al melarancio rinascimentale fiorentino – arrivato in Francia con Caterina de Medici e poi tornato in Italia sul finire degli anni ’70 del Secolo breve, insieme a panna, cocktail di gamberi e aspic, in seguito dimenticato, colpito, come gli altri, dalla damnatio memoriae che demonizza gli anni ’80. Il segreto per fare un’ottima anatra all’arancia, comunque, sta nel perfetto bilanciamento tra dolce, amaro e acido che consente una piena fruizione del piatto, sofisticatissimo nella sua intima essenza, che può portare, se ben fatto, al visibilio del palato.

Fuor di metafora, L’anatra all’arancia è pure il titolo di un fortunatissimo vaudeville à la Feydeau, scritto tuttavia da un inglese come William Douglas-Home che proponeva commedie brillanti ambientate nella upper class: questa, in particolare, intitolata The Secretary Bird in omaggio al personaggio chiave della segretaria tuttofare del protagonista, è del 1967, ai tempi luccicanti ed edonisti della swinging London, da noi, arrivata alcuni anni dopo nell’adattamento mediterraneo che ne fece lo sceneggiatore francese Marc-Gilbert Sauvajon, cambiò il titolo prima in Le Canard à l’orange, poi ne L’anatra all’arancia portata prima sulla scena nel 1973 da Alberto Lionello e Valeria Valeri, poi, complice Luciano Salce che ne curò la regia agrodolce, approdò con gran successo al cinema interpretata con la dovuta nonchalance da Ugo Tognazzi e Monica Vitti.

Ed ora arriva di nuovo in teatro, qui al Teatro Piccinni di Bari, con la regia di Claudio Gregori (in arte Greg, della premiata coppia Lillo & Greg) che ne reinterpreta in modo frizzante la trama. Com’è noto, la storia ruota attorno a Gilberto e Lisa, coppia sposata in crisi, Gilberto (Emilio Solfrizzi), considerando la propria condizione di cornuto – la moglie Lisa (Carlotta Natoli) gli confessa che sta per lasciarlo per un altro, il nobile Leopoldo Augusto Serravalle Scrivia (Ruben Rigillo) – e apparentemente stanco ormai di un matrimonio fallito, propone alla moglie di separarsi in modo civile e senza conflitti, ma con un tocco di esagerazione comica decide di ospitare in casa proprio l’amante di lei, in un tentativo scoperto e in fondo tenero di dimostrare la propria eccellenza morale, convinto che questo la farà reinnamorare di lui.

L’anatra all’arancia © Riccardo Bagnoli

Naturalmente la situazione si complica quando emergono gelosie, malintesi e sentimenti ancora vivi tra i due coniugi, anche per l’arrivo della peperina Patrizia segretaria di lui (Beatrice Schiaffino) arruolata col nobile scopo di far ingelosire la moglie, mentre toccherà alla domestica Teresa (Antonella Piccolo) cucinare la fatidica anatra all’arancia: al di là del lato paradossale e comico della situazione, la partita che si gioca – delicatissima e razionalissima – prevede che, alla fine, di fronte alla provata superiorità civile ed etica di Gilberto, la moglie Lisa spontaneamente torni da lui e, in aggiunta, che anche l’aristocratico amante in fondo in fondo risulti tutto sommato contento di esser lasciato da una donna che scopertamente non l’ama, consolandosi con la bella segretaria.

È un meccanismo che deve procedere oliatissimo verso la sua inevitabile conclusione, i tempi e le ragioni di tutti i personaggi devono essere rispettati alla perfezione perché l’umorismo possa trionfare alla fine e la ricetta porti all’atteso risultato di grande equilibrio, in cui tutti i sapori, come nell’antico piatto, siano perfettamente bilanciati: una partita a scacchi, insomma, animata e comica quanto si vuole, ma che conservi tuttavia, dietro il velo dell’umorismo e della franca risata, lo scoperto ragionamento e il perfetto fairplay che consente a tutti i giocatori, compreso chi sta in platea, di uscire, alla fine, perfettamente soddisfatti per quanto è successo.

E di questo dev’esser ben consapevole anche il regista, o quantomeno Fabiana Di Marco che disegna la bella scena, efficace anche se un po’ statica, visto che rimane la stessa per tutta la durata della pièce, che ci porta nell’elegante casa di Gilberto e Lisa, una villa in Brianza di cui vediamo l’ampio soggiorno che si apre su una porta finestra che dà sul giardino: sistemati in bella mostra ci sono vari pezzi di scacchi bianchi e neri, di diversa grandezza, a ricordarci proprio, inopinatamente, cocciutamente, pervicacemente, quello che è l’assunto portante della godibile commedia, senza il quale, in tutta evidenza, si va fuori tema.

E devo dire che, al di là dell’indubbia bravura degli attori coinvolti, tutti e cinque ottimi, spesso si ha proprio l’impressione di stare da un’altra parte, a Scherzi a parte o in altra trasmissione tv, dove il regista si limita a prender nota dell’esistente senza punto intervenire, pago di quel che accade: e quel che accade è l’assoluto debordare di Solfrizzi, che spesso appare irrefrenabile, impegnandosi in lunghissimi monologhi. Non che questo sia il male assoluto, per carità, lui è un bell’animale da palcoscenico, conosce bene tutti i meccanismi per arrivare diretto alla platea, i tempi sono quelli giusti e le risate sono assicurate.

L’anatra all’arancia © Riccardo Bagnoli

Ma, nel far questo, senza un regista che in qualche modo governi e dia un ordine a tutto questo sacro fervore, senza una mente esterna che valorizzi anche le altre presenze, la cui maestria si trova ad essere inesorabilmente e incredibilmente sacrificata, senza un direttore che guidi e indirizzi quel coro a più voci che necessariamente vanno amalgamate, senza uno chef che sappia cucinare quel piatto favoloso, l’anatra all’arancia finale non sarà quel capolavoro di alta cucina che è, perfettamente amalgamando le dolcezze coniugali con l’amaro dell’amante deluso, con l’acido della domestica becera e con il piccante della segretaria, la pietanza, di per sé grassa e greve, finirà sì per riempire la pancia ma per rimanere, dopo, per tanto tempo a ingombrar lo stomaco, indigesta e indigeribile.

Così imperversa Gilberto a tutto spiano, ricorrendo, pur di strappare una risata, a tutto il vetusto armamentario della commedia dell’arte, vera e propria antologia delle pratiche del teatro all’antica all’italiana, proponendone alcuni peculiari meccanismi, veri e propri mezzi per scatenare, con i tempi giusti – e ieri sera i tempi c’erano tutti – l’applauso e la risata. Come il tormentone: dietro attento allo scalino (che dal salone scende al giardino), con tutte le varianti, c’è sì la risata ma anche la chiamata in correo del pubblico, perché inizialmente la battuta vien buttata là en passant, successivamente entra a far parte di un discorso, la terza volta diventa il tormentone, e così è successo puntualmente anche ieri sera, in cui la ripetizione della battuta provocava sempre maggiori risate.

O come il mai troppo scontato calembour sul lungo e pomposo nome dell’amante oppure al diamoci del tu declinato in tutte le possibili salse del gioco dei pronomi dall’io al tu, dal lei al voi: tutte cose già viste, fritte e rifritte ma che infallibilmente, con i tempi giusti, muovono inevitabilmente alla risata il pubblico che, in fondo, è venuto qui a passare una serata, se non in allegria, certo lontana dalle preoccupazioni d’ogni giorno, finendo, l’arguta commedia inglese, nel novero dell’intrattenimento puro e crudo, nulla di più, nulla di meno.

Tanto che, alla fine, quando finalmente la brava Lisa annuncia che non partirà più con l’amante, la mattina di domenica, da un lato pensi che questa sacrosanta decisione sia frutto di un salutare arrendersi per sfinimento alle chiacchiere, visto che, al di là del gran ciarlare e ciarlare e ciarlare di Gilberto non c’è più alcuna traccia dell’astuto meccanismo che avrebbe dovuto esser messo in atto dal marito cornuto, dall’altra non riesci a trattenere un moto di attesa liberazione, il copione si è finalmente compiuto, ci possiamo tutti alzare e andar via, sperando di riuscire a metabolizzare, con due passi nella sera, tutto quel gran grasso che abbiamo ingurgitato.