
“Tutto il sogetto è in quella maledizione che diventa anche morale. Un infelice padre che piange l’onore tolto alla sua figlia, deriso da un buffone di corte che il padre maledice, e questa maledizione coglie in una maniera spaventosa il buffone, mi sembra morale e grande al sommo grado”. Qualsiasi tentativo di comprensione di Rigoletto non può che partire di qui – parola del Maestro – dalla forza, cioè, di quella maledizione che aveva dato perfino il titolo alla primitiva stesura che Piave aveva fatto de Le roi s’amuse che entusiasmava Verdi ma in pari grado spaventava i bigotti censori che imponevano, dunque, fra l’altro, per tutta risposta, il cambio del titolo: ma la parola rimase, fino a diventar quasi – oso – un ben caratterizzato leitmotive, col suo puntuto e incalzante ritmo di trombe e tromboni a partire dal brevissimo preludio, fino ad assumere nella partitura un ruolo di primissimo piano, richiamato più e più volte nel corso della vicenda, fino a concluderla, infine, ponendo il suo indelebile marchio su tutta l’opera.
E, certo, di qui è pure partito lo studio per la regia che Giancarlo Cobelli fece a suo tempo su questo ormai vetusto ma – se n’è avuta conferma in questi giorni, qui a Napoli, al mio bel San Carlo, dove è stato ripreso da Ivo Guerra – sempre valido allestimento che fu ideato per il Comunale di Bologna addirittura nel 1989 e poi allestito nel 2004; arrivò anche a Napoli, nel 2005, e ne conservo un ben vivo ricordo, legato anche ad un Ambrogio Maestri giovanissimo che ne fu protagonista, tre anni dopo quel celeberrimo Falstaff diretto da Muti, con la magniloquente regia di Zeffirelli, al piccolo Teatro Verdi di Busseto.
Un allestimento, questo di Cobelli, di cui ricorre il quinto anniversario della morte, che ha fatto sempre parlare perché i tradizionalisti non esitarono ad ascriverlo – pur con qualche riserva – nel novero degli spettacoli rispettosi – come usano dire – “del libretto” ma che invece occorrerebbe guardare con maggiore attenzione da parte di ha occhi per vedere: non ci sono le “attualizzazioni” che tanto piacciono invece ai modernisti, niente cambi d’epoca, nessun elemento di straniamento, ma c’è, invece, tanto studio e un progetto ben chiaro e un percorso da seguire, come si addice alle ottime regie, a cominciare proprio da quel concetto di maledizione su cui si fonda l’opera tutta, prima ancora dell’ovvio gioco dell’abuso di potere da parte di un regime totale e immorale, prima ancora dell’esplorazione di quel sentimento che potremmo chiamare “dell’amor paterno” (ma che è qualcosa in più di questa riduttiva definizione) che tanto interessò Verdi e l’opera sua tutta. Anche Cobelli, dunque, mette la maledizione al primo posto e non potrebbe altrimenti fare: la scena prima, mentre ancora suona l’orchestra il rapido preludio, ci mostra un Rigoletto solo, al centro di un palcoscenico vuoto e buio, sognare il mancato e definitivo compimento d’una desiderata vendetta; la stessa, identica scena, si ripeterà alla fine, a chiudere il cerchio, quasi a far sembrare tutta la vicenda un lungo esasperato flashback di ricordi deformati dall’odio e dalla frustrazione.
Posta in questi termini, la grande scena del primo atto, vista attraverso una gigantesca gabbia di vetri solo parzialmente trasparenti e leggermente deformanti, attualizzazione visiva della deformazione del ricordo, oltre che metafora stessa dell’implacabilità della maledizione, realizza perfettamente, anche musicalmente, l’intenzione verdiana: perché Rigoletto è opera di lacerazioni e conflitti e ferite, e anche il suo sistema drammatico si basa su feroci e contrapposte opposizioni; nella prima scena Verdi ha impiegato con sapienza la “musica in scena”, tipico “effetto speciale” del teatro d’opera con cui si contrappongono più motivi musicali, prodotti da voci o strumenti in scena o dietro le quinte, oltre ai temi musicali eseguiti dall’orchestra vera e propria. Così, mentre l’avvio viene affidato, in questo caso, a una banda che attacca una musica da ballo in La bemolle maggiore, in forte contrasto con il conciso e drammatico preludio che ha aperto l’opera, una piccola orchestra d’archi, composta da due violini, una viola e un contrabbasso, accompagna le danze.
Sono ben tre, dunque, le fonti sonore impiegate da Verdi, con tre diversi specifici ruoli drammatici, come nel finale primo del Don Giovanni; a differenza che in Mozart, tuttavia, Verdi sviluppa gli eventi in modo diacronico, distinguendo nel tempo e nello spazio il significato di ciascuna delle tre fonti sonore: alla banda il compito di disegnare un luogo esterno dove nulla è proibito, lato nascosto al popolo, dell’immoralità del potere, all’orchestrina in scena il ruolo formale delle danze galanti e formalmente raffinate che vanno delineando un’ufficialità di facciata, all’orchestra in sala il compito di accrescere il livello emotivo della tensione in ascesa che culminerà con l’entrata di Monterone.
Cobelli realizza visivamente, grazie anche alle belle scene disegnate da Paolo Tommasi, l’intenzione musicale di Verdi, contrapponendo e separando nettamente i piani drammatici, tra la raffinatezza del mondo figurativo rinascimentale degli affreschi di Giulio Romano del Palazzo Te (ma che in qualche modo richiamano anche le allucinate grandiosità dei conviti del Veronese) e il maramaldo mondo dei cortigiani non soggetti ad altra legge se non il capriccio del Signore, con l’orgia di satiri e di ninfe, nani e giocolieri che danzano nel nulla spettrale, lasciando alla fine, dopo Monterone e il lancio della maledizione, Rigoletto chiuso nell’angosciata sua gabbia nera di vetro opaco che in qualche modo viene ad assurgere a simbolo della sua stessa condizione, nell’incapacità di uscire dalle sue contraddizioni.
Contraddizioni che più ancora si faranno sentire di qui in avanti, nell’intento di Verdi di sviluppare il dramma in modo peculiare proprio intorno a queste antinomie e contrapposizioni, rendendo più possibilmente esplicito ciò che è o tenderebbe invece a rimanere implicito, in un ricorrente gioco di pieni e di vuoti, di deformità fisiche e perfette beltà, in cui spesso la forma contraddice la sostanza e viceversa: così anche visivamente, le scene in cui esterni ed interni vengono ad esser contemporaneamente presenti, realizzando, anche sul piano drammaturgico, tale prevalente ambiguità, son le due scene gemelle della casa di Rigoletto sulla via cieca di Mantova e l’osteria di Sparafucile dell’atto ultimo, entrambe di due piani praticabili, rendendo esplicita l’idea d’un ambiente intimo e familiare, dal punto di vista del protagonista, deputato al bene e fortemente sequestrato al mondo esterno reputato cattivo cui appartiene lui stesso; la violazione dell’universo intimo degli affetti, con l’irruzione dei cortigiani, innesta un processo che inevitabilmente porterà all’altra casa, opposta e simmetrica, quella di Sparafucile, per definizione casa del male ma che Rigoletto pensa di aver asservito a sé e dove invece si compirà ineluttabilmente la tragedia.
Anche qui scene e regia realizzano pienamente l’idea musicale, risultando, per contrasto con la magnificenza della casa del Potere, gemellate nella loro asfissiante claustrofobia: è costruita intorno ad un albero ormai morto quella di Gilda, e qui la mia immaginazione ha lasciato per qualche momento la platea del San Carlo per volare altrove, tra pensieri e contrapposte emozioni. Perché, certo, quell’albero possente ma rinsecchito è figura del padre, quel Rigoletto contraddittorio e deforme, non solo nel fisico: ma una casa costruita intorno ad un albero non può non ricordarmi quella, forse più ampia nelle dimensioni, ma parimenti ossessiva e asfittica, in cui abita Sieglinde, costruita intorno al frassino del padre Wotan, in attesa del gemello walside; come non pensare, di fronte a questa casa costruita intorno ad un albero, a come Verdi e Wagner, così contrapposti della comune vulgata, fossero invece così tanto simili in troppe cose, non ultima la continua ossessiva perenne e mai placata ricerca intorno al senso della paternità, fantasma agitato per tutta la vita, incarnandosi di volta in volta in Rigoletto e Wotan, Amonasro e Daland, Colonna e Germont, Titurel e Filippo fino ai “diversamente padri” Falstaff e Hans Sachs, tutti padri imperfetti e contraddittori fin che si vuole, talvolta incongrui e incoerenti, tutt’altro, tuttavia, che banali e scontati. Divagazioni, bazzeccole, pinzillacchere, ma che forse pure servono a definire un’emozione rinnovata di volta in volta.
Le belle scene di Paolo Tommasi accompagnano questo viaggio all’interno della contraddizione e della diversità con suggestioni visive di grande impatto: un itinerario nell’arte italiana che, se pur partita, come detto, e in modo piuttosto scontato, dagli affreschi mantovani, si nutre tuttavia di continue citazioni alla grande pittura, non solo antica; se infatti è il Rinascimento a giocare la parte del leone, entrano pure certe suggestioni medievali, giottesche, in particolare, nella trattazione delle masse, dell’atto ultimo sulla deserta, notturna sponda del Mincio, o addirittura moderne: come non definire surrealista e di stampo metafisico nostrano, alla De Chirico, per intenderci, la fuga colorata e assolata (ma la ammantata figura del duca è un’ombra nera inquietante al centro) di colonne e porte dell’infinito salone del potere?
La direzione musicale segue la sua particolare meditazione su Rigoletto e le sue vicende, risultando, alla fine, non in contrasto con l’idea registica. Nello Santi ha dato la sua personale interpretazione di Rigoletto, con scelte di tempi e fraseggio non dissimili – per esempio, e per citare una delle ultime prove del Maestro – da quelle adottate con la Traviata al sapore mediorientale di Ozpetek: son sembrate a taluni, le sue scelte, segnate da inarrestabile ritorno a vecchie modalità che si ritengon superate, da parte di una porzione di pubblico che s’autoproclama difensor del vero e del puro, aspirando, prim’ancora che ad una filologia, ad una filosofia estetica invero un po’ sterile e astratta. Per parte mia non posso che ripetere quanto detto allora, preferendo un verosimile e buon effetto di teatro ad una qualsiasi purezza presunta e pretenziosa: sceglie, l’anziano direttore, di sorprenderci ancora una volta dando un taglio che fortemente accentua le sonorità più sottili e normalmente nascoste, eliminando – miracolo dei grandi – ogni traccia dei famigerati zumpappappa del Cigno, così aspramente rimproveratici dai teutonici irrisori, per restituirci invece un Verdi insolitamente complesso e sobrio al tempo stesso, estenuato e languido, perfino, in certi passaggi cruciali.
Così, per esempio, il tanto criticato attacco del Sì, vendetta, tremenda vendetta, tanto lento da apparir stralunato, e che a tanti è apparso bizzarro, risponde invece, così almeno a me è parso, ad una precisa esigenza drammatica: quella lenta incertezza iniziale è balenare improvviso e stupito dell’idea stessa di vendetta contro il duca, impossibile pensiero dell’inosabile che si fa lentamente strada nella mente sua, diventa possibile, si concretizza, prorompe infine in tutta la sua drammatica evidenza. Certo, qui entriamo nell’imponderabile campo dell’opinabile, talune soluzioni possono piacere o meno, ed è giusto ch così sia, ma di sicuro non può essere liquidato semplicisticamente come sbagliato ciò che non piace, in nome d’una supposta perfezione formale che s’impone come unica valevole; è un po’ lo stesso discorso del tradimento del libretto cui si accennava prima, come se ripetere all’infinito la stessa identica modalità interpretativa potesse alla fine risultar migliore, e più godibile, dell’estro interpretativo e della partitura e del libretto.
Ottima, come sempre, l’Orchestra del San Carlo, segue fedelmente le scelte del direttore e anche il Coro, diretto dal Maestro Marco Faelli, non sbaglia nemmeno un attacco. Buon protagonista nel ruolo eponimo, il baritono George Petean ha una voce, pur se con qualche carenza nelle note acute, abbastanza corretta, morbida e dal bel timbro, pur senza esser dotata di precipua personalità che la renderebbe riconoscibile: convince, tutto sommato, la sua interpretazione, dalla buona dizione, pur se è da mettere in conto qualche limite nell’espressione.
La Gilda di Rosa Feola ha entusiasmato il pubblico: la sua voce dalla musicalità perfetta, dagli acuti pieni ricchi di armonici, ha saputo esprimere la complessità di un personaggio che passa dalle trasognate ingenuità alla consapevolezza e al sacrificio; occorrono doti d’attrice, oltre che di cantante, per questa parte, e il soprano ha mostrato certamente di possederle tutte: ottima, in particolare, la sua interpretazione dell’aria del secondo atto. Piero Pretti ha disegnato un Duca superficiale e vacuo quanto basta, prestando la sua voce a una Donna è mobile d’ottima caratura: la sua voce chiara ma dal solido registro supera con sicurezza la prova anche se i tempi lenti non giovano al suo fraseggio. È sempre bravo Giorgio Giuseppini, che disegna uno Sparafucile perfetto senza nessun cedimento alla caratterizzazione e alla caricatura macchiettistica: assolutamente convincente come Anna Malavasi, Maddalena ammaliante e dal registro medio-grave espressivo e caldo.