Yerma o l’ossessione tragica della maternità

Yerma

[rating=5] È davvero un bene per il teatro (e per chi lo ama) ritrovare ancora, nella duplice veste di regista ed attore, Gianluca Merolli che, a distanza di poco meno due anni dalla  rivisitazione de “Il gabbiano” di Cechov, si cimenta con  la tragedia “Yerma”, un classico ( difficile e poco rappresentato, a dire il vero) che, insieme a “Nozze di sangue” e” La casa di Bernarda Alba”, appartiene alla trilogia rurale di Federico Garcia Lorca.

Nella sua pregevole e attenta regia, però, lo sfondo dell’infuocata e arida terra spagnola scompare e la storia è “spogliata” di tutto ciò che è tipico del suo folklore (tutt’al più i colori, i personaggi, la luce potrebbero sembrare quelli del sud d’Italia); “spogliati” sono anche gli attori che recitano quasi sempre in intimo, per diventare universali e non collocabili in un’epoca piuttosto che in un’altra (forse non a caso Juan diventa Giovanni ), come universale è la vicenda, raccontata usando un linguaggio senza luogo e senza tempo, ma sempre altissimo, che mescola prosa e poesia e che dà valore esclusivamente alla parola, permettendo di far emergere tutta la ricchissima materia simbolica, a cominciare dal nome della protagonista( il cui significato rimanda al concetto di sterilità), nome che ne segna anche il  suo triste destino; del resto la stragrande maggioranza dei simboli in questo lavoro si riferisce alla fertilità (acqua, latte, sangue) e infertilità (sete, sabbia).

Yerma, una presunta donna sterile, vive in una casa-prigione confinata in un paesino di campagna fortemente legato a una tradizione patriarcale e ai ruoli stereotipati imposti dagli ideali dell’epoca (l’uomo lavora e porta il pane e la donna resta in casa a curare la prole), dove tutti sanno tutto di tutti ed in cui ci sono poche scelte per le donne oltre la maternità; vittima dei pregiudizi e delle idee retrograde della gente, giorno dopo giorno, la donna si strugge e si lamenta della sua condizione completamente sottomessa alla volontà di suo marito Giovanni, un uomo pieno di rancore  o, forse meglio, indifferente, che si preoccupa solo dell’onore della sua famiglia, ma soprattutto un uomo che lei non ama e a cui si concede, invano, solo  per procreare.

Foto dello spettacolo Yerma

La tematica della maternità, dunque, è il nodo cruciale dell’intero dramma: è vivo e palpitante, scorre nel sangue della protagonista, è la proiezione interiore e ideale di Yerma che non riesce mai ad estrinsecarsi, ma che finisce per avvolgersi tragicamente attorno al collo di Juan, figlia della frustrazione e del dolore  della donna che porta su di sé il giogo della vittima e del carnefice.

Attraverso la parabola della madre e del figlio Lorca, quindi, si interroga su ciò che dà senso alla nostra esistenza, come se Yerma volesse “darsi” un senso,  non  in se stessa, ma in un “altro” lontano da lei, un figlio appunto e, non riuscendo ad averne, mette in discussione la sua femminilità e sente venir meno il suo ruolo di donna-madre. E mentre la storia si dipana giungono le note dello “Stabat mater” ( quasi a voler descrivere l’immensità del dolore di Yerma, paragonandolo, forse arditamente, a quello di Maria ai piedi della Croce) e di altre musiche toccanti.

Tutta la parte finale della tragedia è ambientata, in una clinica per la fertilità (allusivamente ma non troppo, vista la tematica, compare un’insegna con la scritta “Clinica Cirinnà”) dove la coppia va a cercare questo figlio salvifico “che porti grazia e speranza” (dunque non più cristianamente Figlio dell’uomo, ma figlio della donna) e tale scelta è operata per calcare l’ aspetto di estrema modernità  e attualità dell’opera e della “strada” che Lorca, forse in maniera inconsapevole, apre. Emblematica in questo senso sono le parole che  Yerma pronuncia quando chiede disperatamente alla fattucchiera un rito magico per riuscire ad avere un figlio (”Potessi averlo da sola”), se si considera che furono scritte in un’ epoca in cui l’ipotesi di una maternità surrogata e il diritto alla procreazione erano argomenti lontani anni luce.

Foto dello spettacolo Yerma

I personaggi hanno un nome ma solo per distinguersi tra loro,  in realtà sono fredde, immense solitudini, monadi vaganti chiuse nella loro tragedia umana, a tratti hanno una forma di contatto dinamico, ma questo  si rivela sbagliato e impossibile (tra Yerma e Victor) o vuoto e rifiutato (tra Yerma e Giovanni), sognato e sperato (tra Yerma e il “figlio”) o virile e rancoroso ( tra Giovanni e Victor).

La regia ha lasciato intatto il testo e “racconta” tutti i personaggi avvalendosi  di una compagnia straordinaria ed affiatata, gli attori si mettono in gioco in maniera istrionica, interpretando ruoli completamente differenti tra loro, in cui si calano, vestendo panni e utilizzando registri diversi. Su tutti si staglia la figura della protagonista, interpretata da Elena Arvigo che delinea in maniera  precisa e raffinata il dolore e la disperazione di Yerma, bellissima è all’inizio la nudità della sua figura giunonica, di un corpo di donna che si mostra pronto ad accogliere una nuova vita, come pure intensamente drammatica è la scena finale in cui il suo ripetuto e straziante grido “Ho ucciso mio figlio!” si stampa anche negli occhi. Gianluca Merolli, sensibile e professionale come attore, ancor di più come regista (e viceversa!), è un Giovanni duro, “legato” alla terra che coltiva e al gregge,  che rende insopportabile ed insostenibile il senso di frustrazione della moglie ed antepone il codice d’onore al desiderio di paternità. Altrettanto padroni della scena, convincenti e poliedrici entrambi, sono Giulia  Maulucci (indimenticata Mascia cechoviana di “Un gabbiano”, prima regia di Merolli) che interpreta Maria ed Enzo Curcurù  che è il rassicurante e mite Victor; infine  il sorprendente Maurizio Aloisio Rippa è un raffinato contraltista che impersona il figlio immaginario e mai nato, ma sempre presente sulla scena e che intona dolcemente, come fosse una cantilena (o una ninna nanna) lo “Stabat mater” e le altre melodie.

Come la storia, anche lo spazio è senza luogo e senza tempo: tanti tappeti a formare una sorta di trama, originali sedie di ferro stilizzate e pochi altri elementi; inoltre, come avveniva nella tragedia greca, anche qui c’è la presenza di un deus ex machina, perché dall’alto scendono dei “meccanismi” inaspettati e funzionali alla recitazione, come l’enorme “chioma” metallica sotto cui si collocano le tre vecchie o le corde che servono per “imprigionare” in casa Yerma.

La scenografia ed i costumi sono rispettivamente di Alessandro Di Cola e di Claudio Di Gennaro, due giovani, ma davvero talentuosi (entrambi già nell’adattamento de “Il gabbiano”), i movimenti scenici sono a cura di Luca Ventura, le musiche davvero pregevoli sono di Luca Longobardi, le luci stupendamente funzionali di Pietro Sperduti e la fotografia del maestro Pino Le Pera.

 

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