Il tempo ritrovato del Giardino dei ciliegi

Al Teatro Mercadante di Napoli una diversa chiave di lettura del classico cechoviano, per la regia di Rosario Lisma

Dorme, Lopachin, il figlio dello schiavo, attende, nel buio scarsamente illuminato dalla lanterna fioca, il ritorno di Ljuba e Anja, si sveglia di soprassalto, lo spettacolo – il sogno, la sua rappresentazione, la memoria di ciò che accadde – può cominciare. Il senso del Giardino dei ciliegi in scena in questi giorni al Teatro Mercadante di Napoli, per la non scontata regia di Rosario Lisma, sta forse proprio in questa non vana attesa del giorno che prelude al ritorno, che Anton Čechov pose a prologo della sua commedia, cui fa da pendant l’aggiunta che la drammaturgia registica elegge invece a suggello, alla fine, con lo stesso Lopachin che apre finalmente, non senza difficoltà, il sancta sanctorum della casa, l’armadio dei libri della stanza dei bambini, cercando la giusta chiave tra quelle che gli ha gettato Varja (per dimostrare che non è più padrona qui…): all’interno il vuoto, l’armadio è nulla più di ciò che è, rivela la sua effimera natura di attrezzo di scena, spalancandosi sul retropalco, scoprendo il gioco teatrale.

E dunque di questo si è trattato, pura rievocazione teatrale, richiamati da Lopachin, che muove verso il proscenio, nel punto esatto dove l’avevamo visto all’inizio addormentato, tornano indietro i personaggi, come in ogni replica teatrale torneranno ogni sera, sogni, fantasmi, evanescenze, pure emozioni, a popolare la grande casa dei ciliegi, che pure non esiste se non nei sogni del poeta che l’ha inventata,  il cerchio si chiude dando un senso e un significato all’incursione della contemporaneità cercando un tempo perduto che riacquista significato proprio perché ritrovato e rivissuto.

Non a caso sceglie, Lisma, di concentrare la propria attenzione sulla sola famiglia, intorno al giardino, nella grande tenuta di Ljuba Ranevskaja, a partire dal maggio odoroso della fioritura: la servitù non c’è più, è sparita più di cent’anni fa, rimane solo, custode di una tradizione ferrea e inflessibile, il vecchio Firs, riscattato dalla gleba dallo zar Alessandro, ma rimasto in quella casa, considerando quel decreto di libertà una disgrazia. Ma è presente, il vecchio ottuagenario, solo in spirito, ne sentiamo la voce – è quella inconfondibile di Roberto Hertlizka – fantasma che si aggira per le stanze vuote, ormai parte di quella casa e di quel giardino, vivendo solo nel ricordo di quella storia di cui fa memoria fedele, ne segue obbediente il destino, perché la vita è passata, è come se non avessi vissuto.

La mancanza della servitù e di altri personaggi minori accentua pure una delle caratteristiche cechoviane – e del Giardino in particolare – che è il racconto, la rievocazione, la memoria, con cui vengono resi alcuni episodi: così è per il racconto del contadinello Lopachin assistito dalla signorinella Ljuba, e poi per la rievocazione della morte del piccolo Griša, così è anche per l’evento centrale della commedia, l’asta della proprietà, resa solo attraverso lo stralunato resoconto di Lopachin. Si aggiungono adesso anche il gustoso episodio del portamonete perduto del vicino Piščik, le disavventure di Trentasette disgrazie, il contabile Epichodov, l’incidente del mendicante che estorce una moneta d’oro alla generosa Ljuba, suscitando lo sgomento e l’ira di Varja: relitti di un mondo perduto, riportato in vita grazie al racconto di chi visse quei momenti, frammenti di una verità ormai dimenticata come la ricetta delle buone amarene succose. Non l’amabile e falsa rievocazione di una mitica età dell’oro, si badi, ma il quotidiano vivere, gioire, soffrire, che si fa testimonianza, storia, e che, lungi dal crogiolarsi nel rimpianto, aiuta a comprendere l’oggi.

Il Giardino è l’ultima opera di Anton Čechov, quando lo scrisse, già irrimediabilmente malato – era un medico, consapevole in pieno delle sue condizioni – aveva l’anima, nonostante tutto, in ogni singolo istante, di giorno e di notte, sempre colma di inspiegabili presentimenti. La descrizione della incapacità di vivere dei suoi eroi si colorava, questa volta, prendendo tonalità ancor più nette, dell’armonia possente ma nascosta dell’assoluta inanità, del guardarsi vivere (e morire), della totale incapacità di agire. Morirà qualche mese dopo la prima, diretta da Stanislavski al Teatro d’Arte di Mosca, non senza aver discusso con lui e con la Compagnia, come sempre, sulla natura tragica o comica di quest’opera. Appena quindici anni dopo, la Rivoluzione d’ottobre spazzerà via, dopo le asce dei palazzinari, ogni residuo giardino dei ciliegi, a riprova, forse, di uno dei tanti punti di vista possibili e necessari intorno a quest’opera.

A veder ciò che ho visto sulla scena credo che Lisma sia riuscito nella non lieve impresa di trovare la chiave giusta, nel ridare nuova luce a questo testo tenendo tutto insieme e giocando la carta della leggerezza, che non è banalizzazione o riduzione ma interpretare bene ciò che intendeva Čechov quando, scrivendo alla moglie, diceva che sarà immancabilmente comica, molto comica, un vaudeville, che in qualche modo avvia e certifica l’impossibilità del tragico nel Secolo breve. E poi l’ironia, che toglie via ogni residuo d’impaludamento, di volontario o involontario troppo prendersi sul serio, che non impedisce di scavar dentro ai personaggi – perché poi su questi e sulle loro emozioni si regge la commedia – ma vieta il serioso del corruccio e del tragico gigionesco, tanto caro a certe rappresentazioni cechoviane fino a qualche tempo fa.

Costruisce, allora, Lisma, con la complicità consapevole di Federico Biancalani, una scena che contiene una scena, un palcoscenico – sembra un teatrino dei bambini, una pedana incavata, due quinte e un arco, un fondale – che circoscrive e crea, per il solo fatto di esistere, un artifizio, un centro focale dove svolgere l’azione: un piccolo teatro, dunque, su quello più grande, lente d’ingrandimento dell’entomologo autore, metateatro accentuato da una vaga e sottile atmosfera di fiaba e parabola, irreale e fuori dalla storia, portando l’azione ad una imprecisata contemporaneità, con l’aiuto dei costumi disegnati da Valeria Donata Bettella, lontana, non fosse per il testo, da ogni riferimento alla Russia, all’Ucraina o a qualsiasi altro luogo. E mette in scena, poi, su questo teatrino della mente, del sogno e del rimpianto, della memoria e della pietà – perché di questo si tratta – la descrizione, commossa e ironica al tempo stesso, dell’impossibilità di comprendere la vita e il mutarsi delle cose e le sue ragioni, contrapponendo alle necessità del mondo la propria identità, le proprie memorie.

Memorie d’infanzia, immagini, sensazioni, sogni, luci, le mani sporche di terra, neve e legna, il calore della casa, utero accogliente e protettivo, tutto ciò di cui si ha bisogno è qui, e il cuore di quel grembo materno, il luogo più al riparo dalle intemperie, è la stanza dei bambini, anche oggi che di bambini non ce n’è più: e ti sembra il tempo fermarsi ad allora, al maggio che fiorisce gli alberi delle ciliegie, respirare, bere, assaporare quel profumo che stordisce, che inebria, che droga, fior di loto che smemora dalle ansie e dai doveri, il filtro acre delle promesse d’una vita futura, che si spengono piano nelle lusinghe ormai perdute, d’un avvenire ormai quasi passato, come diceva quel poeta poco meno che dimenticato.

La magia del giardino dei ciliegi secondo Lisma è tutta qui, nel ritorno ad un passato inconoscibile, all’impossibilità emotiva di rinnegare quel sogno infantile, di rinnovarsi, lontano da quel luogo, da quell’armadio, il centro del cuore di quella casa, custode dell’inimmaginabile possibilità di tornare a quel tempo e a quell’età: regno dei cieli, simile a un tesoro da cui il padrone di casa sa estrarre cose nuove e cose antiche. Perché vanno trafficati a suo tempo, i talenti, ormai è troppo tardi, i tempi sono finiti, l’irrisolutezza di una vita non si riscatta, non può essere risolta vendendo tutto, a questo punto equivarrebbe a svendersi l’anima, ciò che il solerte e pratico Lopachin, il figlio dello schiavo – come Čechov – non riesce a comprendere, inutile portare ragioni che il cuore disconosce. Il profumo dei fiori di quel giardino, il sapore delle ciliege secche che allora erano morbide, succose, dolci, profumate, è null’altro che il profumo del tempo perduto nell’illusoria speranza di poterlo conservare, il profumo della madeleine inzuppata nell’infuso di tè o di tiglio, delizioso piacere che rende indifferenti le vicissitudini, inoffensivi i rovesci, illusoria la brevità della vita.

Su questa scena nella scena, allora, di volta in volta stanza dei bambini, salotto, giardino, a differenziarli solo un gioco di luci e un diverso fondale, Lisma posiziona alcuni oggetti, che, presenti nelle didascalie del testo originale, assurgono qui a elementi descrittivi di stati d’animo, oltre che di situazioni e di conflitti. Il primo totem è, com’è ovvio, il grande armadio dei libri – di legno di ciliegio, perché tramite misterioso con il giardino che è fuori – che troneggia al centro della stanza dei bambini, i giocattoli sul pavimento hanno la particolarità di esser molto più grandi del dovuto, un gigantesco orsacchiotto, un trenino su cui poter magari farsi un giro, enormi cubi su cui ballare o servire il caffè, quasi a contraddire l’illusione percettiva che ci fa meravigliare, una volta cresciuti, guardando gli oggetti della nostra infanzia, per come siano piccoli, mentre nel nostro ricordo erano ben più grandi: segno evidente di come la famiglia, e soprattutto Gaev e Ljuba, ritornino (siano ancora) bambini in quell’ambiente, meglio, li ricordino grandi come quando ne percepivano in pieno ancora la fascinazione rassicurante, il calore della sicurezza.

Nel secondo atto le panchine del giardino son sostituite da tre sdraio per prendere il sole, sul fondale la parvenza di un albero di ciliegio, presenza immanente del giardino, tuttavia desolatamente spoglio, secco, già morto, la conferma, in fondo, di come l’intera messa in scena sia null’altro che un ritorno, una visita da un imprecisato altrove, che, insomma, il vecchio Firs non sia il solo fantasma, e che anche tutta la casa-teatro sia, per l’appunto, ricostruzione della memoria sul filo di sfilacciate ma perduranti emozioni, fata morgana che illusoriamente rivive fuor dai sensi, tributo doloroso ad una vita che non c’è più.

Nel terzo atto è il lampadario il centro energetico della scena, la festa della vita, l’ultima prima della inevitabile fine – e mai stereotipo fu più efficace e meno banale – la certificazione estrema di quanto il luccichìo delle stelle sia contiguo al buio della terra, la festa per l’asta di fine agosto, la festa che chiude la breve estate russa e segna la fine della proprietà dei ciliegi, in contrasto alle angustie di Ljuba, al bilancio della propria esistenza, fino alla sentenza, segnata dall’abbassarsi del lampadario fino a terra, come il sole al far della sera. Musiche, suoni, rumori sono molto importanti nel Giardino, e Lisma li sottolinea a buon ragione tutti, arricchendo, anzi, il tappeto sonoro della pièce con canzoni, suonate da un mangianastri, accennate ad una chitarra – sicuramente presenti nel testo originale ma che qui assumono rilievo particolare – la disco-music al posto del valzer e Battiato e le canzoncine canticchiate e poi il rumore delle chiavi, il suono morente, triste, di una corda di violino che si spezza, il trillo del cellulare che sostituisce lo strappo dei telegrammi dell’amante francese di Ljuba fino al finale, il concerto di motoseghe che, più modernamente dei colpi d’ascia, segna la morte dei ciliegi. Una vera e propria colonna sonora, ben curata, risultato del molto studio sul testo – stavo per scrivere sulla partitura, e forse non avrei sbagliato, perché più volte i quattro atti della commedia sono stati paragonati ai quattro tempi di una sinfonia, e non del tutto a torto.

Ma, naturalmente, questa sinfonia ha le sue voci soliste, proprio il lavoro sull’attore e sull’interpretazione avvicina il testo al nostro contemporaneo, tenta di dire qualcosa al nostro oggi: così la prima coppia, quella dei due fratelli, Ljuba e Gaev, esponenti dell’aristocrazia decaduta, sono in fondo il prototipo dei padri contemporanei, dei boomers che rivoluzionarono il mondo e che oggi si trovano ad aver dimenticato il fuoco del cambiamento, accontentandosi di vivere il mondo così com’è, alla meno peggio, lo sguardo perennemente rivolto al passato come l’Angelo della Storia di Benjamin, che viene trascinato inesorabilmente avanti dalla tempesta del mondo mentre tanto desidererebbe fermarsi a mettere insieme detriti e macerie di ciò che è stato.

Milvia Marigliano sa con maestria consumata restituirci una Ljuba che scommette tutto sulla forza della passione, tracciando un inedito ma molto incisivo ritratto della prodiga Ljuba che non si dimentica, perennemente in bilico tra depressione ed eccitazione, mentre ride o piange divisa tra esaltazione e angoscia, in cui la generosità trasmuta spesso in sperpero, di se stessa, con le persone che ama, prima ancora che dei propri averi, e tutto quel brillìo, quel vociar pazzo e lucente, quel ballar da soli o in compagnia, quell’ostentata e folle felicità, ti accorgi alla fine che in nulla differisce dall’altro lato della medaglia, solo altra fase della stessa malattia, altro polo d’eterna oscillazione del pendolo emotivo: ciclotimia menzognera e incrudelita che lassù t’innalza tra le stelle per poi rigettarti a terra; si deve poi all’abile professionalità di Giovanni Franzoni se Gaev, da personaggio francamente rinunciatario e abulico trasmuta in elegante innamorato della vita, che al pari della sorella nulla trattiene per sé, i libri che ama tanto, nemmeno la sua grande cultura, giungendo a parlar di transavanguardia coi camerieri, straparlando degli anni Sessanta dell’infanzia e dei Settanta delle fallite rivoluzioni e che riesce nella più grande delle imprese: prendersi in giro mentre si lancia nei noiosissimi retorici pistolotti cui tanto è affezionato, lasciando che finiscano in canzonetta vaga e un po’ stonata.

Lo spelacchiato studente Trofimov e la dolce Anja, figlia di Ljuba, in qualche modo rappresentano, nella fede in una palingenesi prossima ventura, la speranza dell’inconoscibile futuro: vivono, come gli adolescenti dell’oggi, prigionieri nella bolla in cui li ha rinchiusi il mondo degli adulti, che ha tolto loro le prospettive e che spesso li giudica, dovranno cavarsela senza sicurezze e sicuramente senza facili illusioni. Entrambi ci restituiscono due personaggi leggermente diversi da quelli cui siamo abituati, perché lo studente di Tano Mongelli risulta alla fine molto meno imbevuto delle assolute idee in cui riporre la sua incrollabile fede, anche passando sopra uomini e sentimenti, tutto sommato decisamente meno antipatico del solito, mentre Dalila Reas affronta e risolve il personaggio a lei affidato confidando molto meno sullo scontato romanticismo e molto più su quella che potremmo chiamare, se non paresse strampalato ossimoro, ingenuità consapevole, pronta ad affrontare le incognite del domani sempre col sorriso allegro della sua adolescenza.

Varja, la figlia adottiva di Ljuba, e Lopachin, il parvenu arricchito, sono la generazione di mezzo, la borghesia rampante, privi della consolazione del passato che hanno i vecchi e della speranza del futuro che è l’unica ricchezza dei giovani, vivono il presente, di cui possiedono con fierezza le chiavi, ma esauriscono le loro energie in una forsennata affaccendata efficienza, unita, come d’obbligo, a grande ambizione e smisurata voglia di rivalsa. Potrebbero trovare la felicità che è lì, a portata di mano, ma finiscono invece kafkianamente per perdersi, vittime dell’orgoglio paralizzante e della impossibilità di sottomettersi all’amore, al dono gratuito all’indicibilmente altro, troppo fuori dalla portata loro. Eleonora Giovanardi ci restituisce un personaggio che ha smussato molte delle asprezze originarie, forse perché non ha più una servitù da vessare, forse perché il tempo passa e certe rigidità vengono necessariamente meno, sta di fatto che, non fosse per una qual esagerata propensione al pianto, il ritratto che vien fuori di questa evangelica Marta che non sa scegliere la parte migliore è veramente toccante, basti guardare il suo addio alla casa, vissuto senza le troppe parole di Ljuba e i troppi sorrisi di Anja, con dignità e silenzio e, per una volta, ad occhi asciutti.

Tutta la pièce è raccontata con gli occhi di Lopachin, lo stesso Rosario Lisma, non a caso figura dell’Autore, personaggio di grande complessità, che unisce all’avido spirito borghese contraddittorie sospensioni e significativi sussulti. Colpisce, poi, l’infinita tenerezza dello sguardo che il regista riserva ai “suoi” personaggi, alle loro inevitabili miserie e qualità inscindibili da difetti e vizi: riesce a restituirci così, a ben pensarci, una diversa percezione, in fondo, dei vissuti loro, un meditato ripensamento, un differente punto di vista che la contemporaneità del nostro sentire suggerisce, accentua, colora, e che alla fine è capace di incrociare il nostro quotidiano, la nostra personale storia e geografia e di ritrovare, commosso, nonostante i tanti giorni venuti a interporsi nel tempo, una comune memoria, in una casa ormai vuota, ai primi freddi.

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Attori
Drammaturgia
Allestimento scenotecnico
Pubblico
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il-tempo-ritrovato-del-giardino-dei-ciliegiIl giardino dei ciliegi <br>di Anton Čechov <br> <br>regia Rosario Lisma <br>con Milvia Marigliano, Rosario Lisma, Giovanni Franzoni, Eleonora Giovanardi, Tano Mongelli, Dalila Reas <br>e con la partecipazione in voce di Roberto Herlitzka <br>assistente alla regia Valentina Malcotti <br>scene Federico Biancalani <br>costumi Valeria Donata Bettella <br>luci Luigi Biondi <br>produzione Tieffe Teatro Milano/Teatro Nazionale di Genova/Viola Produzioni srl <br> <br>durata: 2 ore e 30 minuti (compreso intervallo) <br>In scena dal 14 al 19 marzo 2023 <br>Napoli, Teatro Mercadante, 16 marzo 2023