
[rating=3] Se c’è qualcosa che balza agli occhi assistendo a questo forte e visionario Otello di Napoli è il suo continuo riferirsi, attraverso i densi simboli di cui si serve la regia (di Henning Brockhaus, ripresa da Valentina Escobar), ai temi dell’angoscia e dell’umana follia: d’altra parte il perenne collegarsi a Bosch, pittore inquietante ed enigmatico come pochi, non s’avvera evidentemente per caso, ma ha continui puntuali rimandi e rinvii. Così fin dall’inizio è dato assistere a quella che potremmo chiamare piccola ouverture – essendone priva l’opera, come si sa – costituita dall’urlo e dalla risata d’Jago che strappa via un velo che chiude la vista della scena e che riproduce la Torre dell’adulterio (sic!), particolare del brulicante pannello centrale del Giardino delle delizie: ironica e al tempo stesso drammatica scelta che la dice lunga sullo stile di questa mise en scene. E, si badi, dipinto non certo scelto a caso, con la rappresentazione opulenta e tragica di un laico paradiso al di là del tempo e del male, racchiuso com’è tra il Paradiso terrestre e l’allucinato demente Inferno: umana condizione, evidentemente, colta dal pittore nella sua perduta alienazione.
Questo continuo rifarsi a esasperato simbolismo, ambientando l’opera non già nella solare Cipro ma in terra di nessuno squassata dalla cecità degli elementi – dalla cecità della ragione – orrida e cupa; l’uso continuo dei mimi ad agitare e proclamare un sottotesto non sempre di facile lettura; son sembrati, questi mezzi e questi temi, ad alcuni eccessivamente indaginosi e inusuali, in ricerca ossessiva di arcane significanti immagini. Tuttavia occorre riconoscere allo spettacolo una sua potente visionarietà complessiva, guidata da un’idea registica sicura ed essenzialmente corretta. E così, al di là dei singoli frammenti, ne risulta un’efficace rappresentazione di ciò che il vecchio musicista e il giovane scapigliato in testa avevano, ricorrendo al Bardo: rinnovare l’opera italica sollevandola dal marasma in cui era caduta dopo i romantici splendori: e appunto quest’è Otello, grandioso arrossato tramonto d’un secolo e delle sue rilucenti bellezze.
Così, muore il melodramma – quel melodramma ch’aveva Verdi fatto grande – nelle spezzate frasi cromatiche che disegnano ormai allucinate spirali di suoni. Wagner? No, solo il tempo che passa. Muore nel grande pas de deux che chiude il primo atto e che Boito scrisse riassumendo l’essenziale dell’amputato atto veneziano: duetto d’amore, certo, ma non più temprato al fuoco dell’assoluto romantico, costretto invece alla provvisorietà e relatività dell’amarsi per sventure dell’uno e pietà dell’altra, mentre i mimi clonano il canto ammonticchiando cadaveri; muore nel blasfemo credo d’Jago che nell’ira rompe la madonnina che – alla fine – Desdemona ricomporrà cantando l’avemaria: inusuali gesti al vivere del secolo che finiva allora; muore con la morte dell’eroe: anch’essa non più gloriosa ma mitica ancora tuttavia: è tardi, che non ci sfugga almeno l’ultimo obliquo ardore!
Gli interpreti si rivelano all’altezza dell’impresa: Nicola Luisotti aggiunge un’altra perla al prezioso rosario delle opere verdiane sgranato qui al San Carlo, e già s’annuncia Il trovatore mentre ancora si fa attendere lo splendido Falstaff di Ronconi, già visto al Petruzzelli perché coprodotto l’anno scorso. Sulle ampie spalle di Marco Berti pesava la schiacciante eredità dei tanti Otello che hanno negli anni calcato le scene: oneroso peso che ha influito sul giudizio del pubblico, spesso ingeneroso; è sembrato a me, invece, un onesto Otello dignitoso e a tratti toccante. Gli applausi del pubblico sono andati tutti a Lianna Harautounian – meritati in verità – che si è rivelata una Desdemona di grande fascino e credibilità, all’altezza del compito. Così anche l’Jago di Roberto Frontali che trova la sua difficile misura nel vestire i panni del personaggio, eternamente in bilico tra tentazioni diaboliche e umanissimi peccati. Alla fine buon successo di pubblico.