Una Gatta sul tetto che scotta da morire dal ridere

A Napoli, al Teatro Mercadante, una geniale reinterpretazione del dramma di Tennessee Williams

La gatta sul tetto che scotta - © Luigi De Palma

Cosa fa una gatta che si trovi a passeggiare su un tetto che scotta? La risposta è semplice, secondo Tennessee Williams: fa di tutto per rimanere su quel tetto, acrobazie spericolate, equilibrismi insoliti, imprecando, implorando, pregando. Mentendo, soprattutto. Al Teatro Mercadante qui a Napoli Leonardo Lidi porta La gatta sul tetto che scotta riuscendo a cogliere, all’interno di quel capolavoro scritto giusto settant’anni fa, inusitati elementi di attualità presenti nel dibattito culturale dei tempi nostri tormentati, il significato dell’esser famiglia, del vivere la sessualità all’interno di essa, del ruolo della donna.

Dopo Zoo di vetro e Un tram che si chiama desiderio con cui, negli anni Quaranta, Williams si era assicurato la notorietà, la sua vena negli anni successivi si era momentaneamente appannata con Estate e fumo, La Rosa tatuata, Camino Real, drammi che testimoniano l’incipiente difficoltà di sapersi rinnovare pur rimanendo all’interno dell’arte sua propria che canta il desiderio, la perdita, la fragilità della vita, in un contesto spesso oscuro, inquieto, irrisolto come la società in cui i suoi vulnerabili, tormentati, illusi e disillusi personaggi hanno in sorte di vivere. La gatta sul tetto che scotta segnò per lui, nel 1955, la resurrezione, il ritorno al successo: nella temperie di quegli anni, i Cinquanta della fede nella trasformazione e nel progresso, del boom economico, dell’inizio del consumismo e delle angosce legate alla guerra fredda, il dramma si inscrive pienamente in quella irripetibile stagione teatrale dominata da autori come Arthur Miller ed Edward Albee, riflettendo gli echi di forte trasformazione per l’identità americana ma anche delle terribili ipocrisie che lo caratterizzarono.

È l’America borghese e tradizionalista ma profondamente scossa da pulsioni nascoste, ipocrisie familiari, crisi di identità e desideri repressi, quella che Williams porta in scena, il Sud degli Stati Uniti — terra di piantagioni, di convenzioni sociali, di onore famigliare — diventa lo sfondo ideale per questa tragedia moderna, dove i personaggi si muovono come fantasmi intrappolati nel proprio presente e nei propri non detti. La famiglia Pollitt è un microcosmo in cui si riflette, incancrenito, il malessere americano: un padre autoritario malato e in declino, una madre astuta e conformista, due fratelli rivali e una nuora, Maggie, la Gatta, disposta a tutto pur di garantire la propria posizione.

La famiglia diventa una trappola di bugie condivise, una gabbia fatta di mura ma soprattutto di barriere mentali, labirinti dell’anima da cui non è possibile uscire, in cui perfino respirare diventa difficile: le dinamiche tossiche che ne derivano svelano l’ipocrisia dei legami imposti, l’omosessualità latente del protagonista Brick, il suo rapporto con l’amico Skipper — morto in circostanze ambigue — è il nucleo silente attorno al quale ruota la frustrazione sessuale e emotiva del personaggio. Williams, omosessuale dichiarato, imprime con Brick al dramma un’impronta fortemente autobiografica o, almeno, così avrebbe voluto: Elia Kazan, regista della prima a Broadway nel 1955, d’accordo con Williams modificò il testo, riscrivendo soprattutto il terzo atto, con finale più ottimista e dialoghi più conciliatori.

Da questa versione Richard Brooks tre anni dopo trasse anche il famoso adattamento cinematografico con Elizabeth Taylor e Paul Newman, ancora più lontano dall’originale, soggetto com’era al Codice Hays, che imponeva restrizioni su contenuti sessuali e morali: ogni riferimento all’omosessualità del protagonista è del tutto eliminata, Skipper è solo un amico e alla sua morte è legato genericamente l’alcolismo, in una famiglia certo conflittuale, ma in modo molto più conciliatorio e moralmente accettabile.

La gatta sul tetto che scotta – © Luigi De Palma

Nel 1975 Williams ne riscrisse quella che, in qualche modo, rappresenta la “versione d’autore”, dal finale più aperto, cupo e ambiguo, più fedele all’estetica del “teatro della menzogna”, più apertamente è evidente l’assenza di risoluzione e la stagnazione esistenziale del protagonista, di cui vengono reintegrati con più forza e chiarezza i riferimenti all’omosessualità.

Pubblicata postuma e messa in scena integralmente solo decenni dopo, è la versione che, nella nuova traduzione di Monica Capuani, Leonardo Lidi porta in scena in questa coproduzione del Teatro Stabile di Torino e del Teatro Stabile del Veneto: il regista piacentino, che in passato ha già messo in scena, dell’Autore americano, Zoo di vetro, in una controversa ambientazione circense, torna a Williams dopo aver concluso un suo personale itinerario triennale su Čechov, e la cosa non è di piccolo momento quando si pensi che Williams stesso dichiarò di voler scrivere, con La gatta, un “Gabbiano americano”, e in effetti è questa una delle possibili chiavi di lettura del dramma, intima rielaborazione dei temi, delle strutture e delle poetiche cechoviane, filtrata attraverso le nevrosi del Sud statunitense e il sottotesto sessuale censurato dell’America postbellica.

In tutti e due i casi si tratta di una tragedia del non detto, concentrando l’azione in un’unica unità claustrofobica – una stanza, un giorno, una famiglia – e come in Čechov, anche qui i grandi eventi (morte, eredità, crisi esistenziali) restano emozionalmente irrisolti, avvolti nell’ambiguità indeterminata di un tempo incerto, dalla struttura ellittica, non orientata alla catarsi: entrambi i testi rifiutano il pathos convenzionale per una drammaturgia sospesa, dove la tensione è interna, sotterranea, e la verità drammatica si cela dietro i gesti quotidiani.

Rifiuta ogni residuo naturalismo, Lidi, i suoi personaggi appaiono avvolti ormai in un’aura di assoluto che non risponde più alle categorie che l’uomo s’è inventato per vincere la paura della morte, tempo e spazio hanno perso ogni significato, a cominciare dalla stanza da letto di Brick e Maggie dove tutto il dramma si consuma: il cubo integralmente rivestito di marmo bianco che Nicolas Bovey disegna per la scena è tutto ciò che ha questa famiglia, sorta di asfittico mausoleo innalzato agli amori che furono, a quello mai consumato – e mai confessato – per Skipper a quello consumato con freddezza per Maggie e definitivamente finito nel momento in cui Skipper e Maggie sono andati a letto insieme.

Fu questo, probabilmente, a causare la morte forse suicida di Skipper, da allora Brick si rifiuta anche solo di baciare Maggie, vive in questa sorta di castello incantato e gelido soprattutto in compagnia del silenzioso spettro di Skipper che, nudo, lo accompagna costantemente nutrendolo dell’unico cibo che gli è rimasto: non provo più il click dentro di me, dice, l’unico modo per raggiungerlo, quel click, sospensione eterea del desiderio, è attraverso l’alcol, accumulando bottiglie vuote sul pavimento di quella stanza che è ormai una cella. Fly me to the moon, ripete il motivetto che, annunciato all’inizio, a sipario chiuso, dalla Bambina – personaggio che riassume tutti i mostricciattoli senza collo dai nomi di cani, figli di Gooper e Mae – ritorna più volte come una sorta di leitmotiv nel corso della tragedia, implorando un please be true decisamente lunare in questa che invece è la fiera della menzogna e dell’evitamento, del non detto e del vuoto che si cela dietro le cose.

La gatta sul tetto che scotta – © Luigi De Palma

Se il teatro cechoviano è una camera con finestra aperta sul nulla, quello williamsiano – secondo Lidi – è allora una stanza chiusa, senza finestre, dove la temperatura sale, e nessuno riesce a uscire, sancta sanctorum dell’ipocrisia che è tutto e niente, che annebbia la vista impedendoci una visione e un godimento pieno delle cose ma che in fondo ci permette ancora, almeno in apparenza, di vivere; e dallo schifo dell’ipocrisia non si esce che passando attraverso due sole porte, dirà Brick a Big Daddy, l’alcol o la morte, consentendo a padre e figlio di ritrovarsi in questa suprema ricapitolazione delle loro perdute identità: la malinconia cechoviana della fine di un mondo viene tradotta dal regista, in modi williamsiani, nella crisi dell’identità maschile e del modello sociale che a quella indissolubilmente si accompagnava, rispettivamente nel figlio e nel padre.

Le porte che permettono al simulacro del mondo di entrare e uscire in questo sepolcro imbiancato che è la gabbia ormai centro del mondo fantasmatico dei protagonisti è, significativamente, un doppio specchio manovrato dal fantasma di Skipper: al contrario dello specchio di Alice, discrimine tra realtà e possibile cambiamento, in questo caso il doppio specchio delle porte di Skipper non rinvia altro che a se stessi, in un infinito e disperato loop dove non può esistere né cambiamento né redenzione e dove non c’è posto per la pietas.

Porta dunque su di sé lo stigma visibile e palpabile di quella perduta identità machista, il Brick che Fausto Cabra reinterpreta magistralmente saltellando per tutta la scena su una gamba sola, metafora fin troppo evidente della frattura nella sua identità eterosessuale costruita e imposta e dell’irrisolta omosessualità: è quasi una danza, la sua, in questo perfetto sincronismo dei corpi in scena che caratterizza splendidamente questo allestimento, vive una smorta letargia, il suo personaggio, riparandosi dalla realtà grazie a uno scudo d’apparenze apatiche e distanti, colorate da sprazzi fulminei d’ironico cinismo.

Di fronte a lui, nel vero confronto che vale una vita, il Big Daddy Pollitt di Nicola Pannelli ne esce figura potentemente teatrale: senza eccedere in forzate e caricaturali caratterizzazioni, l’interprete riesce a renderci, più con i gesti e il non detto che con l’esplicitarsi di gags o accenti, il patriarcato nudo e crudo di cui tanto si parla e in modo tanto più efficace perché scevro proprio da ammiccamenti a notorie figure della cronaca patria e internazionale, quasi astratta essenza del patriarca rude e larger-than-life, tossico e violento, visceralmente rabbioso e orgoglioso.

Accanto a lui una degna figura di donna, la Big Mama cui Orietta Notari, da grande attrice qual è, riesce a dare, anche in questo caso, valenza universale, in fondo ingenua nella sua accorata fastidiosità, umiliante ma realistico ritratto di donna messa da parte, la cui voce è spesso inascoltata o ridicolizzata: apparentemente affettuosa e unificatrice, ma in realtà impotente di fronte alle crepe del nucleo familiare, vive in una bolla di illusioni, non riesce a vedere né il disprezzo del marito né il declino emotivo del figlio.

La gatta sul tetto che scotta – © Luigi De Palma

Gooper e la moglie Mae, rispettivamente Giordano Agrusta e Giuliana Vigogna, sono la coppia alternativa in cui Brick e Maggie si rispecchiano, nel gran gioco di specchi deformanti e illusori che è questa pièce: miscela d’ambizioni frustrate e di violenza repressa, ambiscono alla succosa eredità cercando di incarnare, a qualsiasi costo, una apparente onestà e idealità, in perfetta antitesi con la coppia protagonista, dove Brick è sfuggente e apatico, Gooper iperattivo e manipolatore, mentre alla seduttività e alla tenacia di Maggie si contrappone il moralismo e la malizia di Mae. Riescono felicemente, gli interpreti a farci perfettamente preconizzare cosa sia, per così dire, l’aggiornamento del patriarcato, diverso da quello dei padri, fors’anche peggiore nell’apparente pulizia dei modi: allo stesso tempo anticipano cosa saranno, probabilmente, Maggie e Brick tra qualche anno, rientrati definitivamente nella conformità.

Così sfornano una gran quantità di figli – qui rappresentati egregiamente dalla Bambina di Greta Petronillo – che vengono agiti e usati come meri strumenti per la conquista dell’eredità, in aperta contrapposizione alla sterilità del matrimonio di Brick e Maggie, utilizzando anche la buona parola del Reverendo di cui è interprete Niccolò Tommasini. Forse la Bambina, nel disegno registico, è anche qualcosa di più, vista l’intenzionalità con cui spesso guarda Maggie e Brick, già preconizza probabilmente la figlia della norma, della riacquistata patente di conformità per entrambi i genitori, la nascita che sana ogni ferita paterna e completa ogni imperfetta femminilità.

Lo spettro di Skipper, un eloquente Riccardo Micheletti pur senza spiccicare mai parola, è portatore di inviolati valori come l’amicizia, lo sport, l’integrità fisica, Brick in qualche modo ha finito per idealizzarlo come suo alter ego, accomunandolo a sé come in una qualche eroica diade della leggenda – Castore e Polluce, Achille e Patroclo, Alessandro ed Efestione – e sacralizzando il corpo nudo dell’amico, che pure lo ha tradito con Maggie: il corpo, in questa visione di Lidi – nell’originale Skipper è un convitato di pietra, sempre nominato ma mai in scena – che si venera in questo tempio marmoreo che esiste solo nella mente di Brick, non è tanto mero oggetto estetico bensì luogo sacro dell’esperienza, forma paradossale di idolatria che trasforma il corpo in tabù, proprio perché temuto e desiderato al contempo. Lo stesso attore (lo stesso personaggio?) veste a un certo punto i panni del medico che dovrà dire la verità sulla malattia di Big Daddy: senza volto, coperto di calzamaglia nera – è il medico ma è pure la morte – è al centro di una delle scene più potenti, in cui balla una sorta di danza macabra mentre risuona assordante il leitmotiv di Fly me to the moon e un vento fortissimo disperde palloncini e bottigliette e insieme pensieri, convenzioni, ipocrisie.

Su tutti gli altri personaggi svetta naturalmente Maggie la Gatta, affascinante, ambigua, passionale, intelligente Valentina Picello, che riesce nell’impresa non facile di essere insieme e in ogni momento intensa e manipolativa, cercando e trovando, alla fine, la quadratura del cerchio, facendo sembrare il suo personaggio, in other words, al tempo stesso vittima e carnefice, Maria e Maddalena, sincera e interessata (all’eredità). Un cimento da grande attrice, al centro di una tesissima interpretazione che non conosce soste, tutta giocata sul ritmo silenzioso ma pervasivo di una danza senza fine a piedi nudi nel vestitino cilestrino che la caratterizza, a mezzo tra l’abituccio e il babydoll, lasciando che traspaia una qualche egosintonica avvenenza che obliquamente libera oscilli tra provocazione e verecondia.

E così alla fine, placatesi le urla e gli improperi e consumate le parole dell’invidia e della menzogna, impara Brick, oh se impara! La bottiglia che il fido Skipper gli porge ora è diversa, ha un colore ambrato, ecco, ho trovato il click, dice: prende possesso dell’eredità del padre, non tanto la sconfinata piantagione, quanto la necessaria dose di cinismo che serve per sopravvivere ai colpi e a slings and arrows of outrageous fortune e come un novello Amleto forse imparerà, alla fine, anche lui a servirsi dell’ipocrisia.

Sta, il lascito paterno, nel ritrovarsi in quello stesso modello sociale, guardando Maggie, ora, con lo stesso sguardo con cui Big Daddy guarda Big Mama, lo stesso disinteressato odio, lo stesso umiliante disprezzo, se serve farà con lei pure il sospirato figlio, conformandosi, dando corpo e sostanza alla sua piccola bugia: mentre lei, finalmente a letto, straparla in delirio da bacio perugina, confessandogli il suo amore, lui prende in prestito dal padre proprio quel da morire dal ridere beffardo e arrogante mentre le luci si attenuano, chiudendo con uno sghignazzo da vaudeville che sa di morte la tragedia cechoviana di Williams in salsa Lidi, e mai fu più saggia conclusione, mai più appropriate parole, mai più sarcastico cinismo, mai più gelida prospettiva.

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Attori
Drammaturgia
Allestimento scenotecnico
Pubblico
Articolo precedenteLe P’tit Mercier, una ventata d’aria fresca e creativa a Saint-Siffret
Articolo successivoUn weekend ad Avignone tra bellezza gotica e charme provenzale
una-gatta-sul-tetto-che-scotta-da-morire-dal-ridereLa gatta sul tetto che scotta <br>di Tennessee Williams <br>traduzione Monica Capuani <br>regia Leonardo Lidi <br>con Valentina Picello, Fausto Cabra, Orietta Notari, Nicola Pannelli, Giuliana Vigogna, Giordano Agrusta, Riccardo Micheletti, Greta Petronillo, Nicolò Tomassini <br>scene e luci Nicolas Bovey <br>costumi Aurora Damanti <br>suono Claudio Tortorici <br>assistente regia Alba Maria Porto <br>produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale <br>Durata: 1 ora e 40 minuti <br>In scena dal 13 al 18 maggio 2025 <br>Napoli, Teatro Mercadante, 13 maggio 2025