
Quando Jean Genet scrisse Le serve aveva trentasette anni, aveva già mandato alle stampe i suoi primi romanzi che, benché scandalosi e reputati pornografici, venivano venduti sottobanco, dando comunque grande notorietà all’autore; decise di cominciare la sua carriera di drammaturgo proprio con questo lavoro, la cui ispirazione risiede in un fatto di cronaca che aveva fatto scalpore quindici anni prima: due sorelle, a servizio di una famiglia borghese, composta da due coniugi con una figlia, trucidarono con inaudita ferocia madre e figlia, non riuscendo poi a dare al giudice alcuna spiegazione; il fatto fu all’epoca pure oggetto di saggi di psicologia, se ne interessò perfino Lacan con il suo famoso articolo Motivi del delitto di paranoie.
Il delitto delle sorelle Papin, e anche Musatti scrisse su questo episodio, che dunque è di interesse della storia della medicina e, più in particolare della studio della paranoia e delle psicosi in generale. Evidentemente, era altro ciò che, invece, interessava l’enfant terrible del teatro francese, il gioco degli specchi, cioè, che si genera in questi casi di impersonificazione eroticamente malata che, alla fine, si traduce nel gioco stesso del teatro. Claire e Solange impersonano – interpretano – alternativamente la padrona ripetendone anancasticamente tic, atteggiamenti, toni di voce, pur deformati attraverso il masochistico rivelarsi dell’invidia; quando Claire è la padrona, Solange è Claire, la interpreta allo stesso modo, in un perfido e gelido gioco che non è altro che, alla fine, epifania del buio, rito alternativo che rinvia alla genesi stessa dell’uomo e al dualismo tra luce e tenebra; quando è Solange a incarnare la padrona, Claire sarà ovviamente Solange, in un annullamento d’identità che giunge fino al tentativo, ripetuto ed eternamente frustrato, dell’eliminazione del doppio, dello specchio, in uno spazio allucinato e sospeso che è, insieme, trasfigurazione e deformazione della realtà.
Fallito il tentativo di uccidere la padrona col veleno, sentendosi minacciate da un’angoscia soffocante che non è altro che estrema proiezione dei propri paranoici terrori, altra via d’uscita non potrà prospettarsi per loro se non il suicidio per l’una e il consegnarsi alla giustizia degli uomini per l’altra.
Un simile canovaccio teatrale va recitato, com’è ovvio, in una particolare modalità, perché, evidentemente, ciò che costituisce materia di interesse dello scienziato, del medico – la comprensione, cioè, del sintomo, la sua genesi, la sua eventuale rimozione – non è invece di alcun interesse all’artista, che invece immerge la vicenda in una sospesa e metateatrale artificiosità favolistica: lontano da ogni tentazione realistica, mito e simbolo diventano, con tutta evidenza, chiave di volta della messa in scena di Claire e di Solange, non più serve di carne e sangue, ossa e muscoli, ma archetipo, allegoria, null’altro che immagine e icona di tutte le serve del mondo, rappresentando tutti gli esclusi, di ogni tempo e nazione, in contrapposizione a tutti i padroni d’ogni tempo, che in qualche modo non vivono di vita propria ma solo in quanto proiezioni delle serve, funzionali, in qualche modo, alla loro dannazione.
Si stenta allora, a fronte di quanto detto, a comprendere il senso ultimo della rappresentazione de Le serve, in questi giorni al Teatro Sannazaro per Napoli Teatro Festival, che vede la regia di Antonio Capuano e l’interpretazione di Gea Martire e Teresa Saponangelo con Iole Caròla nella parte della padrona.
Sceglie, il regista, di riscrivere il testo in napoletano, adattando però, almeno così m’è sembrato – e così in verità risulta dalla scheda dello spettacolo – la classica traduzione di Giorgio Caproni, rinunciando alla diretta trasposizione dal francese; ambienta poi l’intera vicenda in un teatro, durante le prove de Le serve di Genet, decidendo di raddoppiare, dunque, inutilmente, la metateatralità della vicenda; è costretto, anzi, per questo, a inventarsi altri personaggi, altre presenze: una voce fuori campo, quella di un presunto regista che ci è sembrato, in verità, molto poco appassionato al suo lavoro, e quella di un attrezzista/fisarmonicista che, oltre a portare fisicamente sul palco un po’ di mobilio a popolare una scena inizialmente deserta, accenna di tanto in tanto motivi francesi e napoletani al suo strumento; apporta alcune modifiche sostanziali alla drammaturgia dell’opera, sopprimendo di fatto la parte della signora – l’attrice che la interpreta compare solo all’inizio, in un improvvisato prologo in platea – facendola eliminare di nascosto dalle altre due, se ben si comprende, per gelosia di mestiere. Questo costringe anche ad una sostanziale modifica della seconda parte della pièce, perché la parte della padrona è sempre “recitata” da una delle due serve, e perché l’omicidio della signora diventa poi il reale motivo del suicidio finale.
Così, se la scelta della lingua napoletana è di per sé legittima, in linea di principio – e in questo caso, credo, nemmeno brilli per originalità – occorrerebbe tuttavia fare sempre somma attenzione al tipo di linguaggio utilizzato: a noi è sembrato né più né meno che il linguaggio dell’ordinaria commedia in vernacolo, condita delle inevitabili battutacce più o meno tristi e stanche che con mestiere si seminano qua e là, abbondantemente strizzando l’occhio ad un pubblico di bocca buona che, infatti, inevitabilmente, ride.
Iin tal modo la lingua, questa particolare lingua, ha ineludibilmente – volutamente? – trasformato un’opera originariamente dissacrante e delirante in una farsa che, al tono boccaccesco delle espressioni, alle non poche desolanti allusioni pseudosessuali, univa pure, molto volentieri, un’accentuata e voluta mimica da Benvenuti al Sud, piena dei soliti, ormai onnipresenti, luoghi comuni su Napoli e la napoletanità, in questo ispirati pure dal musicista che inesorabilmente, in sottofondo, ripeteva le sue ariette, tanto per non far dimenticare dove eravamo.
L’idea di trasportare la vicenda in teatro, se poteva in partenza e sulla carta sembrar buona, vista la voluta accentuazione degli elementi metateatrali presenti nel testo, occorreva tuttavia, anche qui, tener conto che est modus in rebus: lo straniamento è operazione delicata, da giocarsi con colori tenui tono su tono, una dimenticanza, una postura particolare, un’occhiata in tralice. Se invece si arriva a costruire una strampalata vicenda gialla con tanto di omicidio dell’attrice in camerino, arrivo del commissario, interrogatorio, con forzature disoneste sulla trama e sul senso stesso dell’opera, c’è da scommetterci che ad essere, alla fine, veramente straniato e straziato sarà il povero spettatore seduto in platea, vittima di un’operazione difficile da definire, ma che provvisoriamente mi accontento di considerare sicuramente di retroguardia e di colpevole anestesia delle coscienze, che muove in direzione e velocità eguale e contraria alla valenza rivoluzionaria e dissacrante che ebbe questo testo alla sua comparsa e all’influenza che poi ha avuto durante tutto il secolo scorso.
Eppure, lo stesso Genet, al testo de Le serve accluse un saggio di cui consiglierei, evidentemente, la lettura a chiunque voglia metter in scena l’opera con un minimo di umiltà: in Come recitare Le serve, lo stesso Autore, raccomandando addirittura di dar la parte delle due sorelle a due giovanetti, per aumentare il distacco e il senso rituale con cui andrebbe impostata la recitazione, aggiunge che “Le attrici non devono salire in scena col loro naturale erotismo, imitare le donne che si vedono sullo schermo. L’erotismo personale, in teatro, degrada la rappresentazione. Le attrici sono perciò pregate, come dicono i greci, di non scodellar la fica in tavola. (“Le serve”) è una favola… Bisogna a un tempo crederci e rifiutarsi di crederci, ma poiché ci si possa credere occorre che le attrici recitino non secondo un modulo realistico”. In fondo, bastava leggere.