
C’è chi li scoprì, in tempi non sospetti, in un caro piccolo teatro romano ormai tristemente chiuso per ragioni che è meglio non rinvangare, come la sottoscritta. Ricordo un “esordio” straordinariamente potente sulla pigra scena romana. Era il lontano 2015 e già Carrozzeria Orfeo aveva iniziato a farsi conoscere sui palchi dello stivale, con una pièce famigliare e dissacrante, la prima di molte altre felici opere di Gabriele Di Luca. A Roma sarebbero tornati altre volte, al Vascello, al Piccolo Eliseo, per poi sbarcare anche al cinema con un film tratto proprio dalla pièce “Thanks for Vaselina“.
Da lì in poi un’incetta di premi, applausi, sold-out. Dopo dieci anni questo straordinario gruppo artistico torna in capitale con quello che forse un po’ infelicemente si potrebbe definire il loro “cavallo di battaglia”, appunto “Thanks for Vaselina“, in scena al Teatro Vascello dal 16 al 28 maggio. Sì perché con loro, stereotipi verbali e non rimangono incastrati in definizioni inadeguate e vecchio stile, “scivolano”, proprio come gli ovetti di marijuana che dovrebbero viaggiare in zone diciamo d’ombra, umano-canine.
E’ una storia famigliare scorretta, durissima, dove esplode un complesso edipico irrancidito, impastato male di rabbia e opportunismo, che le pale del mulino più famoso d’Italia, eletto a metafora buonista per eccellenza, le spacca in testa a tutti, pubblico incluso. Ci sono Fil e Charlie, trafficanti improvvisati, Lucia, madre ludopatica in attesa di riscatto, Annalisa, transgender latinoamericana che in un tempo lontanissimo è stato padre e poi lei: Wanda. La tenera principessa oversize, che oggi un’insidiosa politica dell’ipercorrettismo censurerebbe nell’epiteto più osteggiato dal bodyshaming.
Eppure loro, quelli di Carrozzeria Orfeo, Di Luca in prima fila, delle parole non hanno paura e nemmeno di mettere in piazza quei pensieri da strada, omofobici, razzisti, violenti, di cui ognuno ha avuto esperienza seppur, speriamo, indiretta. E’ questo schiaffo in viso che talvolta ha reso le loro storie indigeribili a taluni, per fortuna pochi, pronti a bollarle come sboccate e miserevoli parabole. Ebbene lo sono, ma non in senso negativo, Di Luca ci racconti spaccati umani vicinissimi e forse per questo talvolta “fastidiosi”. Anche in questo pezzo come in altri, è il ritmo a farla da padrone, in un continuo botta e risposta fra battute pronte e oboli di riflessione, affatto velati, per chi sappia coglierli.

Poi ci sono loro, gli attori, che ci regalano grandi performance, soprattutto nei doppi e rovesci fra Charlie (Massimiliano Setti) e Fil (Gabriele Di Luca), così come nelle mille sfumature di un personaggio come quello di Annalisa, fantasticamente rese da Pier Luigi Pasino. Questo il triumviro “storico” a cui si aggiungono le new entry Carlotta Crolle nel ruolo di Wanda e Sonia Barbadoro in quelli di Lucia, bravissime entrambe anche se, un po’, bisogna dirlo, ci manca la Schiros.
Perfette le luci di Giovanni Berti col gioco ormai noto di vuoti e pieni luminosi che scandiscono i raccordi scenici, mentre gli spazi di Lucio Diana svelano un interno da parati anni 70 e tendine a filo. Menzione speciale per i costumi di Stefania Cempini, che da il suo meglio proprio sulla “diversamente magra” Wanda. Ci piace questo cult del fallimento, dove non vince nessuno e forse proprio per questo ci riconosciamo più facilmente nei personaggi in scena, che un po’ come noi sognano svolte improbabili quanto fatali.
La caduta è il leitmotiv di tutti i testi di Di Luca che si conferma negli anni un drammaturgo di livello, lontanissimo e per fortuna da certi colleghi, anche coetanei, che guardano al teatro ancora in modo banale o peggio manieristico. Le narrazioni tracciate dalla sua penna sanno invece farci viaggiare forte, come sulle montagne russe della vita, spezzandoci il fiato a ogni battuta e scaraventandoci come si usa dire per far bella figura nelle recensioni: “in medias res”. Il suo è uno stile assolutamente unico, distintivo in maniera innegabile, aldilà dei gusti personali, è stato un piacere ri-assistere a questa piccola perlina sporca di fango e “brutte parole”, che però ci fanno sentire bene, sfogati e nient’affatto rasserenati circa il futuro.
Qualcuno ha scritto che la speranza è ridicola, forse è vero e allora invece che invocarla, buttiamola dentro il calderone della vita, dove la crudeltà sfacciata dell’esistenza possa cuocere a fuoco lento tutti i nostri inutili sospiri e chissà che un giorno l’autore di Carrozzeria Orfeo ci regali, come d’improvviso, un’impennata, una deviazione, una sconvolgente virata verso altro, nuovi orizzonti, nuove storie, nuovi esperimenti teatrali. Non li aspettiamo però, perché sarebbe già una resa all’ovvio, ma auspichiamo che il meccanismo perfetto e geniale di questo gruppo, non si inceppi mai sulla ripetitività. Che questo, almeno, sia concesso, nel frattempo inchini e schioccanti scontri di palmi.