“Ferdinando”, storia di una caduta

Al Teatro San Ferdinando torna "Ferdinando", per la regia di Nadia Baldi e l'interpretazione di Gea Martire

Difficile, la sfida: Ferdinando fu scritto per Isa Danieli, che portò in scena la sua Donna Clotilde nel 1986, al Teatro Verdi di San Severo, alla fine d’un uggioso febbraio; di quella rappresentazione, che vinse in quell’anno fatale – l’autore morirà in settembre sull’Autostrada del Sole –  il premio IDI come miglior messinscena, dopo esserselo già aggiudicato l’anno precedente come miglior testo teatrale, Annibale Ruccello curò anche la regia, oltre a ricoprire il ruolo di Don Catellino. Recentemente abbiamo assistito ad una regia di Arturo Cirillo per l’interpretazione di Sabrina Scuccimarra: a provare a esplorare ancora questo testo si cimentano stavolta, al San Ferdinando di Napoli, Nadia Baldi e Gea Martire, rispettivamente regista e protagonista di una produzione che vede anche Chiara Baffi nel ruolo di Gesualda, mentre Fulvio Cauteruccio è Don Catellino e Francesco Roccasecca Ferdinando. Diciamo subito che la sfida è stata ampiamente vinta, sia per quanto riguarda la regia, sia per l’eccellente cast attoriale, pur se, come del resto è giusto, perfino ovvio, il Ferdinando che ne vien fuori ha diversa calibratura dei due citati, e dissimile sapore e retrogusto. Mi sono sempre chiesto quanto, in Ferdinando, appartenga all’ambito antropologico e intimista, all’umanità avulsa, in qualche modo, dalla concretezza della storia, voluta e studiata raffigurazione dell’universalità dei comportamenti umani e quanto, invece – o insieme, e nonostante le stesse dichiarate intenzioni dell’autore – sia da ascrivere ad una tormentosa e tormentata descrizione d’una vera e propria – sanguinosa, crudele, inesorabile – lotta di classe che, e non per caso, si combatta tra le annose mura della villa d’un paese vesuviano (facile riconoscere, pur se mai nominata, la città natale di Ruccello) in cui si relega donna Clotilde. Perché certo, se è vero che Ruccello dichiarò il suo totale disinteresse al dramma storico, è però indubbio che ciò che l’autore volle rappresentare è percorso inserito nella storia, parabola discendente, progressivo degrado che i personaggi intraprendono nel corso dei due tempi della pièce. L’ambientazione ottocentesca non deve, pertanto, traviare la nostra analisi più di tanto, insomma, non si tratta di mettere in scena Il Gattopardo o I Viceré, cui pure quest’opera è stata nel tempo messa a paragone, tuttavia certi riferimenti storici, soprattutto per quanto concerne la lingua, nella scrittura così accurata e tipica di Ruccello, non vanno ignorati.

Certo, è giusto allora stilizzare l’ambientazione, straniarla al punto da non rendere riconoscibile stili ed epoche: si svolge, tutta l’azione, secondo Nadia Baldi, in un altrove che più non conosce nè storia né geografia, solo qua e là, tra veli e faretti affiora, come reperto d’un passato ormai indecifrabile, qualche particolare d’una vita precedente, reale, tangibile nella sua quotidianità. Gli stralunati abitanti di questo mondo vestono, certo, abiti consoni alla moda del 1870, ma chiudono spesso le loro battute con striscianti mugolìi, e mentre parlano trascinano in giro alte sediole montate su ruote; pendono dall’alto, e si intersecano con altri orizzontali, lunghi cavi montati su carrucole da cui i personaggi prendono, calandoli come gli antichi “panieri” da supposte finestre, immaginarie bevande e altrettanto ipotetici cibi; escono di scena, gli stessi personaggi, come se, chiusa la loro battuta, esaurito per il momento il dettato dell’autore, rientrassero in diverso ordine, in altro e discorde universo, rimanendo lunghi istanti immobili guardando fisso in platea, fantasmatiche presenze che nulla hanno più di naturale, come fossero ancora bramose di vivere, di più e più ancora, nell’artefatto teatrale; donna Clotilde occupa, per tutta la prima parte, il suo posto nel grande letto al centro del palcoscenico, indossando una lunghissima camicia da notte che fa tutt’uno coll’enorme letto, così da farla sembrare – ella, il letto, la camicia che li unisce e li salda definitivamente – un fantasioso animale mitologico metà donna e metà letto. Lo abbandonerà, quel letto e quella lunga, fantastica camicia da notte, nella seconda parte, liberata e guarita da Ferdinando; nel finale delle rivelazioni dolorose, tornerà, tuttavia, quella camicia mostruosamente lunga, scendendo in tutta lentezza dall’alto a rivestirla, come grottesca crisalide, metafora d’una riacquistata prigionia, ma, pure, chissà, di nuova consapevolezza.

Accanto a questa estrema stilizzazione e astrazione, non in contrasto con essa, la descrizione della lunga, inesorabile discesa agli inferi, ed è qui, in questo viaggio terribile, aspro, ripugnante, che la lingua di Ruccello esplica appieno la sua potenza: è la parola, infatti il mezzo di cui l’autore si serve per descrivere il degrado della contemporaneità, raggiungendo vette mai toccate da altri. In tutti i suoi lavori, la contaminazione della lingua non è mai limitata a mera descrizione d’uno stato di fatto, semplice testimonianza della corsa discendente verso il basso e della rovina: nei drammi ambientati nella contemporaneità, come per esempio in Notturno di notte con ospiti, Adriana parla una lingua che si macchia dei jingle della pubblicità, si sporca dei luoghi comuni dei telegiornali, si deprime con le battute scontate dei quiz televisivi. Con Ferdinando, Ruccello decide di tornare alle radici della storia, al momento in cui tutto cominciò, all’anno della conquista, a quel 1870 della sconfitta della napoletaneità nei confronti della nascente Italia: non è un caso che donna Clotilde si rifiuti di parlare la lingua del vincitore, come, allo stesso modo, è certamente significativo che Ferdinando, falso e bugiardo, quella lingua, invece, la parli bene e ne faccia addirittura forbito sfoggio. Si badi, lungi da Ruccello ogni nostalgia neoborbonica ante litteram! Non è il dato storico, e tantomeno ogni pensabile anacronistica revanche, ciò che gli interessa: quello che veramente lo appassiona è come la parola possa non solo descrivere l’interiorità di una persona, ma addirittura determinarne salvezza o condanna, vita o morte. E così, lo scivolare lentamente il dramma dalle forme un po’ arcaiche del vecchio romanzo realista a quelle del romanzo d’appendice e – in questa rappresentazione qui al San Ferdinando – perfino a certe caratteristiche di rappresentazione popolare come la sceneggiata, non solo è giustificato, ma trova ampia e piena cittadinanza: Ferdinando è, in questo senso, null’altro che figura d’un chimerico falso Paradiso perduto e del peccato che fu all’origine di ogni successivo peccato, contaminazione, violenza, morte e Ferdinando, bello quanto falso, con le sue posticce ali d’arcangelo, prefigurazione d’altro angelo caduto che trascina via con sé ogni possibilità di redenzione: «La Storia, infatti, non tollera gl’intrusi», scrive Stefan Zweig in “Storia di una caduta”, «sceglie essa stessa i propri eroi e respinge spietata coloro che non ha chiamato».

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Attori
Drammaturgia
Allestimento
Pubblico
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ferdinando-storia-di-una-cadutaFERDINANDO <br>di Annibale Ruccello <br>regia Nadia Baldi <br>con Gea Martire, Chiara Baffi, Fulvio Cauteruccio, Francesco Roccasecca <br>scene Luigi Ferrigno <br>costumi Carlo Poggioli <br>musiche Marco Betta <br>progetto luci Nadia Baldi <br>aiuto regia Rossella Pugliese <br>assistente scenografo Fabio Marroncelli <br>assistente costumista Maria Carcuro <br>fotografia Davide Scognamiglio <br>realizzazione scena Alovisi Attrezzeria <br> <br>produzione Teatro Segreto <br>Napoli, Teatro San Ferdinando, 10 gennaio 2017 <br>in scena dal 10 al 15 gennaio 2017