Sa vida mia perdia po nudda di e con Leonardo Capuano. Non se ne esce vivi. O forse si.

[rating=5] Lo sai, io sono pazzo, dice l’uomo. Nella Palestra Bizzarri di Pistoia assistiamo mercoledì 17 giugno a Sa vida mia perdia po nudda, gioco al massacro di 50 minuti per un solo attore, liberamente ispirato a Delitto e castigo di Dostoevskij. La pazzia di Leonardo Capuano, metodica e rara, rimbomba nelle vene. Come un bisturi toglie materia in eccesso, Capuano affila gli strumenti chirurgici per vivisezionare il testo, eliminare i grassi della performance e restituire le fibre a un corpo inquieto, posseduto dal suo sangue e sudore.

Così, secondo me, si interpretano i classici, così si dà voce a una mente come Dostoevskij, le cui opere sofferenti e paranoiche meritano di uscire dalla gabbia della carta. Così si rende giustizia a parole che non devono essere biascicate o pronunciate, ma sollevate dal loro abisso con una miriade di accenti, ritmi, e una voce – quella di Capuano – in cui si può sguazzare. L’attore sembra posseduto dalle frasi e dalla loro musica intrinseca, dando vita a un solfeggio crudele e auto-ironico, sarcastico, che fa sorridere di una stranezza piacevole, per poi tornare a pungere come un ago.

Sa vida mia perdia po nudda

L’odore delle bettole, la vita rancida della prigione, la paura della tortura, il senso di colpa, tutto, del capolavoro di Dostoevskij, passa attraverso di lui, che non dà un attimo di tregua allo spettatore, investendolo come un pugile investe l’avversario. Appena si varca la soglia della palestra, Capuano si sta già allenando, corre in cerchio, chissà da quanto, ma la sua voce non è mai calante, o sbiadita, nonostante lo sforzo fisico continuo, perenne. La dimensione dello scontro, dice l’attore al termine dello spettacolo, in un faccia a faccia col pubblico, è stata un richiamo che il libro stesso gli ha offerto, una visione che l’ha attraversato e che ha deciso di fare sua.

L’assassino, Rodion Romanovic Raskol’nikov, sfoga la sua anima pestilenziale e abbrutita dal ricordo e non-ricordo del delitto. Capuano fa risuonare il personaggio in ogni gesto, in ogni spostamento dello sguardo, o semplicemente stando fermo. La sua rabbia eccitata si scarica su un pupazzo di gomma, che colpisce senza pietà ripetute volte nel corso dello spettacolo, procurando l’atmosfera violenta e sacra dell’arena, la febbre prima del combattimento. I tonfi al suolo di quello che è il suo alter-ego assomigliano a tuoni, effetto speciale probabilmente voluto, aggressione fisica e mentale, che materializza l’anima di Dostoevskij, il furore fisico che le sue opere ci riservano.

In un momento di distensione Capuano impersona la madre di Raskol’nikov, e lo fa in lingua sarda, anche qui suscitando una certa ilarità che sa di pianto. Tutto il ricordo materno si lascia scivolare via in questa scena, dove il dramma della prigionia è di nuovo in agguato. Due brani rock fanno la loro apparizione, consolando per poco il passato alla rinfusa, l’alcool, le prostitute, l’uccisione della vecchia strozzina. La dimensione della galera c’è, e anche il senso del castigo, di una spiritualità massacrata, di un tunnel senza via d’uscita. Per dare tutto questo essere bravi attori non basta. Bisogna essere grandi attori. E Capuano lo è.

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