
[rating=4] Quattro uomini e quattro vite unite dal filo sottilo della solitudine per “Quattro buffe storie”. Cecè, il giovane frivolo; Chiachiaro, l’uomo abbrutito; Lomov, l’uomo fragile; Njuchin, il misero vecchio.
L’inizio è frivolo, ma greve, perchè il finale deve essere nostalgico, ma leggero. Cecè, brillante uomo di mondo si fa la barba davanti allo specchio, mentre un suo amico Commendatore lo attende in salone, pronto a consegnarli una busta piena di denaro per “ringraziarlo” del suo gentile interessamento presso il Ministro.
E proprio mentre si rade, un pensiero gli attraversa rapidamente la mente Non è uno strazio pensare che vivi sparpagliato in centomila? Tutti mi chiamano Cecè, ma vai a ricordarti chi sono per questo e per quell’altro.
Soltanto un fugace dubbio, che si dissolve e la pochade può avere inizio. Rosario Chiarchiaro ha perso tutto: lavoro, stima, rispetto. Non gli resta quindi che chiedere al giudice D’Andrea, la sua patente di legittimo “iettatore”.
Dramma e farsa convivono deformando una realtà grottesca e crudele. Questi poveri piccoli uomini feroci hanno costretto Chiarchiaro ad indossare una maschera che loro stessi gli hanno costruito. Lomov, giovane e solitario possidente, decide di ovviare alla sua vita solitaria chiedendo in moglie la sua bella e bisbetica vicina, Natalja. Per entrambi il matrimonio sarebbe la via di fuga da una vita vuota, eppure i due non si comprendono, litigano per motivi futili, si infervorano.
E si percepisce il sorriso amaro di Checov di fronte ad un’umanità che non sa fare altro che distruggere qualsiasi possibilità di essere felice.
Ritmo e leggerezza, in un crescendo di litigi quasi “musicali”. Sembra solo una farsa, eppure accanto all’evidente lato comico dei personaggi, si affaccia quello umano.
Mauri e Sturno sono impeccabili, ma bravi lo sono anche Mandolini, Garofoli e tutti gli attori. Una regia che è un congegno ad orologeria dove non c’è spazio per nessuna sbavatura. Il ritmo rispetta la natura dei testi, senza mai diventare una corsa folle verso il finale e musiche e luci non fanno che enfatizzare tutto ciò.
Ed ecco infine arrivare solo, con il suo fvecchio frac sgualcito, Njuchin, costretto dalla moglie a tenere una conferenza benefica sugli effetti devastanti del fumo. Ma la conferenza diventa il momento per Njuchin di confidare al pubblico anni di amarezze e di privazioni, subite a causa della moglie-arpia.
Tenerezza e grottesco diventano poesia in questo monologo finale di Mauri-Njuchin. Affiora il ricordo di una tournée in America del Sud, in cui il giovane Mauri faceva da suggeritore a Memo Benassi e intanto sognava di fare (da vecchio) il povero Njuchin. E chissà, forse insieme alla nostalgia del personaggio, c’è anche quella di Mauri per quella lontana estate di tanti anni fa.
Ah sapeste che voglia ho di fuggire..lasciare ogni cosa senza nemmeno voltarmi..e fermarmi in un luogo lontano, in mezzo alla campagna …e guardare per tutta la notte come sopra di te pende quieta e chiara la luna.
E così il finale è un fiocco di neve che , in una notte stellata, si deposita delicatamente sulla mano aperta dello spettatore.