
La rassegna Invasioni, organizzata dall’Associazione versiliese La Bottega del Teatro, termina in bellezza con Stasera sono in vena, scritto e interpretato da Oscar De Summa. Solitamente preceduto dalla sua fama. Si dice sia uno spettacolo divertente e acido, rock e melodico, capace di far piangere e creare scompiglio. E per una volta, stranamente, far andare d’accordo pubblico e critica – quando di solito riescono a scannarsi.
Nel caso di questo secondo capitolo della Trilogia di Provincia – comica e lirica fotocopia teatrale di un’adolescenza in Puglia negli anni Ottanta -, la varietà di registri si fa un solo corpo, vibrante e caotico. In andamento orizzontale e verticale, con i canti dal vivo di brani di Jim Morrison, Pink Floyd, David Bowie, Jeff Buckley – testimonianze sonore di un’epoca di sbandamento e utopia ubriaca e sfiatata. O peggio bucata.
Le organizzazioni criminali che negli anni Ottanta introdussero in Italia le sostanze stupefacenti, sapevano che avrebbero creato un business mostruoso, straordinariamente redditizio, straordinariamente letale. De Summa ha dichiarato di aver concepito questo monologo proprio come forma di gratitudine per essersi ritrovato vivo, salvato da una fine banale e trucida – quella che può investire chi fa uso di eroina. E di aver prodotto questo racconto, prosciugato nella sua forma scenica e scenografica, ma strabordante, ammiccante, impetuoso nella sua intima carne.
Seduto su una cassa, illuminato, poi in controluce, senza mai spostarsi, l’autore/attore narra i giorni in cui, ragazzo, insieme ad altre anime perse, gli amici di sempre, vaga per la costa di un Sud languido, senza scopo, solo con i Doors a palla, e una dose di roba addosso. Narra l’arrivo di Sandra, l’angelo svizzero, che si unisce al coro, nel tentativo di annientare la madre giudicante, terribile, beffarda: Madre Solitudine. Loro lo facevano per questo. Sconfiggere la noia, proteggersi dalla mancanza di obiettivi, usare un antidoto al presente.
Come una cinepresa, De Summa crea magnifici scompensi emotivi, con atmosfere elettriche e inverosimilmente spassose, poi all’improvviso torbide, malinconiche, risucchiate da una vertigine che lo fa annaspare nell’aria. Senza mimare, ma facendo sentire al pubblico cos’è quel marasma senza nome e coordinate che toglie pezzi di polpa e di ricordi, li mangia e sputa via, per ridurli a un mucchietto di desideri ammaccati.
Molti personaggi, senza quasi più dignità umana, si inseriranno nella sua vicenda, e mentre lui ne uscirà illeso, altri ci lasceranno la pelle. Fra uliveti che sembrano morti e suoni di un rosario, ossessivo, frutto di una schiera di donne, mogli, madri che non riusciranno a salvare i propri figli.
Uno spettacolo su cui non si può obiettare niente, un manufatto grezzo e bello così, attraente nelle sue sfaccettuture, interpretato da un fuoriclasse del Teatro contemporaneo italiano.