
Non sono molte le occasioni della vita in cui capita di trovarsi nell’esatta convergenza di due o più espressioni umane che, raccontando storie in apparenza diverse, si scoprono poi inaspettatamente dialoganti sul medesimo percorso. Quasi che l’una finisse per tessere l’intreccio narrativo dell’altra. Ed è ancora più raro esserne testimoni, ospiti e protagonisti al tempo stesso. È quanto è accaduto il 3 aprile 2025 in un desolato stabilimento di caldaie del barese, nello spazio di una freddissima primavera di Puglia.
L’ex Ansaldo di Gioia del Colle, ora AC Boilers, uno dei più grandi impianti europei, ormai fermo da tempo e a rischio chiusura definitiva, si è fatto teatro per la messa in scena di Medea per strada ed Eracle l’invisibile di Teatro dei Borgia. Gli spettacoli fanno parte della cosiddetta Trilogia dei miti, che comprende anche Filottete dimenticato e raccontano appunto i tre miti di Medea, Eracle e Filottete in chiave contemporanea. Sono stati gli organizzatori del Festival teatrale Chièdiscena, che da otto anni coinvolge giovani e istituzioni del territorio, a volere fortemente questo incontro di umanità sparse, eppure legate nel profondo.
È stato un privilegio farne parte come spettatrice, replicando una visione di Medea per strada lontana quasi dieci anni, a bordo di un furgoncino che partendo dall’ormai fu Teatro Eliseo, arrivava sulla Cristoforo Colombo. Allora lo spettacolo mi aveva colpita, ma non nel modo giusto. Complice una visione ciritica forse ancora acerba, cercavo in quella rivisitazione del mito arcinoto un’improbabile sorpresa. Tornare invece ad attraversare la vicenda umana di questa Medea rumena, fuggita come tanti negli anni ’90 dal regime di Ceaușescu, sull’onda di un sogno italiano presto infranto, mi ha offerto finalmente la chiave di lettura intensa e dolorosa dei suoi autori.
La scrittura di Fabrizio Sinisi e della stessa interprete Elena Cotugno è una lama sottile, che scava nell’anima e riporta piano in superficie le oscurità umane, in modo necessariamente impietoso. Come spesso insegna il teatro, è solo lo schiudersi di una ripetizione falsamente identica a regalare momenti, passaggi, parole perdute a un primo incontro. Così per me, vedere Medea questa volta in uno dei locali dell’ex Ansaldo, riallestito in forma di centro antiviolenza, ha come ricostruito le parti mancanti. Il luogo c’è da dirlo ha fatto la sua. L’incontro fra ultimi, gli operai dimenticati e la storia di una giovane donna dell’est Europa in cerca di fortuna, ma costretta a prostituirsi, hanno innescato silenziosi e indimenticabili parallelismi.
Quasi un viaggio di riconoscimento a doppio circuito. Come nell’urlo animalesco in cui Marlowe di Cuore di tenebra sobbalza nel ravvedere la sua stessa radice di umanità. Ma pure nello scambio di sguardi dolenti degli immigrati in America primo amore di Mario Soldati. Uomini provenienti da angoli rurali del mondo fra loro sconosciuti, che dopo mesi di abusi e fatiche nel leggendario Nuovo Continente, non volevano arrendersi all’inveridicità del mito della terra promessa. Aggrappati disperatamente a quell’unica irrinunciabile favola che ancora li teneva in vita. Come una madre che rifiutandone il ruolo, cresce in grembo una vendetta innaturale sulla sua stessa progenie. Come noialtri costretti a specchiarci quotidianamente nella violenza del mondo. Tutto torna, ritorna e si riannoda.
Complice d’intensità, strappate a suon di palpiti e lacrime in gola certamente lei, Elena Cotugno. Due occhi incastrati in quelli di ciascuno spettatore, pericolosamente e senza scampo, a raccontare il dramma di una madre rifiutata e offesa. È lei a incantare a guisa di Circe gli astanti, sfilacciando come Penelope il mito per eccellenza dell’infanticidio della regina Medea, che si chiama come Elena di Troia. Intrecci mentali di morte e bellezza hanno così scritto fra i pensieri un copione inedito. Pieno di agganci e salti in ogni fonte letteraria e cinematografica del mio vissuto. Notturno di donna con osptiti, La infanticida di Caterina Albert, mostruosità materne nella cronaca contemporanea.
Una rete di rimandi intessuta fra i capelli di una parrucca corvina, di cui infine questa Penelope-Elena-Medea-Circe si spoglia, per infilzarci uno per uno con quelle pupille che gridano: “vi guardo tutti.” Molto più di una semplice interpretazione, un’esperienza crudele e umanissima. Ancor più intenso avervi assisitito con un gruppo di adolescenti, parte viva del Festival Chièdiscena. Osservare i loro sguardi confusi e increduli, ma infine consapevoli, è stato un dono prezioso.

A precedere Medea per strada è stato L’Eracle l’invisibile con Christian Di Domenico sempre su testo di Sinisi e Cotugno. Qui lo spazio scenico ancora di Filippo Sarcinelli è stato pensato in una tenda di primo soccorso, all’interno della quale venivano distribuiti pasti caldi e coperte al pubblico. Nel caso della messa in scena all’Ansaldo, la tenda si trasforma in una mensa. Qui si plasma la vicenda di uno stimabile professore che, fagocitato da un’ingiusta accusa, si ritrova presto lentamente e inesorabilmente defraudato degli affetti e dei beni primari. Non ultimo proprio la casa. È ancora la storia di un emarginato, un padre investito dalla perdita di lavoro, poi dal divorzio e infine dalla devastante paura di rimanere privato della possibilità di crescere una figlia.
La lenta discesa negli inferi di un uomo separato costruisce il crossover col mito euripideo dell’Eracle, o Ercole. L’eroe per antonomasia, in grado di superare indicibili fatiche, per poi ritrovarsi omicida della sua stessa famiglia. Ecco allora che Di Domenico si decompone in un superuomo al contrario, spogliandosi delle maglie dei suoi supereroi preferiti, come Medea lasciava scivolare via le tante mutandine dei suoi incontri di prostituta. Non resta che il falso mito di un Babbo Natale pronto al più vile atto di morte. Di Domenico regala alla platea sparsa fra sedie di plastica bianche e luci fredde un personaggio che non è un personaggio, ma un padre reale, potenzialmente identico a quello di chiunque. L’interpretazione è un viaggio calmo su un treno pronto a schiantarsi, ma che in ultimo ci ricongiunge alla pietas di un pezzo di pane.
Proprio la preparazione del pane che accompagna tutta la rappresentazione, è un richiamo alla concretezza e un ricordo ancora difficile di quei giorni pandemici, in cui tutti ci siamo in qualche modo riconnessi all’antichità di questo rituale. L’odore di quel pane appena sfornato, materia presente, tangibile, viva, aggiunge un innesco sensoriale ulteriore che si aggancia nuovamente al proprio background esistenziale. Uno spettacolo toccante, intimo, profondissimo.
Questo Eracle contemporaneo, tanto quanto la Medea, segnano un tracciato unico sul selciato mai sicuro né scontato del teatro civile. Regie di Gianpiero Alighiero Borgia, che ha ideato entrambe gli script. Pennellate sicure, asciutte, perforanti, di una messa in scena che ragiona anche sul corpo. Tempio di attesa e violazione in cui tutto accade e ricade addosso di chi guarda e ascolta. Ed è una tortura meravigliosa. Potenza teatrale pura.