
Mi è capitato pochi giorni fa di far visita, dopo anni di assenza, alla mia vecchia scuola. La curiosità di affacciarmi nuovamente nella classe del liceo ha avuto la meglio su di me. In un turbine di memorie zampillanti, ho vagato nel perimetro della mia adolescenza, dove odori e volti prendevano anima. La lavagna, la cimosa, l’attaccapanni, la finestra, il termosifone. I banchi. Come vecchi compagni li ho accarezzati tra i solchi lasciati da taglierini graffianti. Mi sono posato infine su di uno, e mi sono seduto.
Quell’aula è ancora là, esiste un posto che contiene l’infanzia di persone, il solo pensiero fa del bene all’anima. Entrandovi i pensieri, le ansie e le paure della vita adulta si attenuano. C’è bisogno di posti così. Di luoghi dei ricordi, del passato, ancora da toccare.
Credo che uno spettacolo sia tanto più importante quanto più impegna lo spettatore nella sua autobiografia, rendendola limpida. Per capire un’opera, deve essere prima già in noi, in uno stato di letargico dormiveglia. È così che assistendo a “Il giardino dei ciliegi” di Cechov, mi sono rivisto in Leonid Andeevic Gaev che si commuove di fronte alla scoperta dei cento anni compiuti dal suo armadio «si potrebbe celebrarne il giubileo», e anche nella gioia irrefrenabile con la quale Ljubov corre a vedere i ciliegi nel giardino dell’infanzia. Ognuno di noi ha un giardino dei ciliegi, la vita a volte ci porta lontano, facendoci fare strani giri, ma in fondo bramiamo per rivederne la forma, il colore, l’odore, prima che ne abbattano le fronde.
Il pregio della nuova edizione che Paolo Magelli ha apportato al suo Giardino, dirigendo due Compagnie, quella del Teatro Metastasio Stabile della Toscana e della Sardegna, è la leggerezza, riconducendo l’opera cecoviana al suo ruolo originale di commedia, comprendente elementi farseschi. Via le scenografie, via i ciliegi, via la tragedia, resta il palcoscenico spoglio, nudo, dove il teatro si crea, si vive. Le visioni di Magelli necessitano di spazio, per gli attori che lo percorrono in lungo e in largo e per il testo, che sotto la sua regia, respira di nuovo.
I sentimenti dei personaggi sono estremizzati, passano dal riso al pianto e viceversa, raggiungendo repentinamente il cliché, facendo comunque emergere le forze culturali e le dinamiche socio-economiche del lavoro in Russia alla fine del XIX secolo, dopo l’abolizione del sistema feudale, con la conseguente nascita della borghesia e la rovina dell’aristocrazia.
D’effetto le musiche di Arturo Annecchino che enfatizzano le azioni corali e sottolineano i momenti di pathos della performance.
L’amalgama tra le due compagnie di attori appare ancora in fase di rodaggio e nonostante scene corali astratte di grande effetto scenico, emergono linguaggi e movimenti teatrali dissimili, segno anche della forte connotazione delle due scuole.
Buone comunque le interpretazioni tragicomiche dell’intero cast.
Esemplare il finale, dove i personaggi escono di scena, come fiori caduti a terra, appassiti, sotto i colpi della scure che abbatte i ciliegi, metronomo indefesso del tempo che passa sulla vita di ognuno.
Applausi sentiti in sala per il debutto al Metastasio.