
[rating=4] Il teatro: forse uno specchio incrinato, distorto, fedele della vita. Quante volte bramiamo di rispecchiarci per capire chi siamo e poi restare stupiti di un dettaglio strano, una sfumatura insospettabile nello sguardo, un difetto che non c’è più. Di rado lo specchio rimanda il sosia rassicurante della figura sperata – molecolare e psicologica – del nostro io.
Nel caso del teatro di Arthur Miller, e si parla di Morte di un commesso viaggiatore (1949), sembra di ammirare in un grande specchio frammenti della propria vita, mentre il protagonista, Willy Loman, rievoca eventi mai seppelliti e con loro inizia un dialogo serrato.
Ogni personaggio della pièce parla idealmente una lingua immersa anche nel nostro presente storico, collettivo e privato. Il rapporto – conflittuale e irrisolto, impregnato d’odio e amore – tra un padre e un figlio, al centro dell’opera, si avvicina lentamente all’intimità dello spettatore. La generazione solida del commesso viaggiatore (uomo nato alla fine dell’Ottocento, che negli anni ’50 del Novecento ha 63 anni), in scontro con quella liquida dei suoi figli maschi, evoca crisi interiori e identitarie, striscianti in ogni era, quando un “prima” e un “dopo” sono e saranno sempre in lotta. La ricerca di un proprio posto nel mondo, la mania di ascesa e successo sono dolcemente irrisolti e mal digeriti sia dalla società odierna che da quella coetanea di Miller. Il commediografo statunitense cambia continuamente prospettiva al racconto, posando l’attenzione sul capo famiglia, la moglie Linda, i loro due figli maschi – Biff e Happy. A rotazione la sua mano in apparenza distaccata, ma in verità coinvolta, accarezza le parole fra i due figli maschi, esemplari irrisolti di capacità d’azione, frenati da segrete rovine; il legame fra la moglie e Loman; fra lui e i suoi fantasmi. Qui la vita borghese di una normale famiglia americana negli anni del boom economico è turbata dal superfluo e indispensabile bisogno di essere chi non si è, che condiziona un uomo invaso da un patologico senso di fallimento e sfiora pesantemente i figli, mentre la madre guarda fedele e impotente.
Bisogna prendere inizialmente le misure con la versione di Elio De Capitani andata in scena al Manzoni di Pistoia – dal 29 Aprile al 1 Maggio 2015 , familiarizzare con la tecnica narrativa, i flashback sfumati nel presente, i flashforward e i flussi di coscienza, insieme alle visioni e le allucinazioni di Willy. Inside his head è il titolo alternativo che Miller avrebbe pensato per l’opera, ambientata, effettivamente, nella scatola cranica del protagonista. Il regista sfrutta con sensibilità la scenografia, per concretizzare la componente illusionistica – e al confine con l’incubo – del testo. I suoni sono anche stavolta preziosi nella costruzione del successo dello spettacolo, dando una eco e un colore aggiuntivo all’interpretazione degli attori, che vorrei menzionare: Elio De Capitani, Cristina Crippa, Angelo Di Genio, Marco Bonadei, Federico Vanni, Andrea Germani, Gabriele Calindri, Alice Redini, Vincenzo Zampa, Vanessa Korn.
Il commesso viaggiatore della storia è un simbolo e un tipo cosmico, così come è un uomo qualunque, che perde la scommessa con la sua immagine allo specchio. Essere o non essere, Willy alla fine di una sofferta quanto banale somma aritmetica ed emotiva, decide di cessare di essere.
Se la musica è il primo atto creativo e istintivo dell’uomo, la danza e la rappresentazione del mito sono sue figlie. Lo spettacolo di Elio De Capitani riesce a suscitare reazioni fisiche di piacere, come solo una musica, una canzone potente possono fare. Un momento cruciale di questo allestimento è l’incipit (che di per sé dà i brividi), dove i personaggi da immobili prendono vita nell’attimo in cui una pattinatrice li sfiora. Così si muovono, si spostano, scompaiono, mentre i due giovani attori che impersonano Biff e Happy si spogliano per divenire, solo per un istante impressionante, quegli eroi plastici, lottatori, quasi mitologici, in cui il padre sognava di vederli trasformati una volta diventati grandi.
Illusioni, sogni, l’illusionismo della vita: in Morte di un commesso viaggiatore i significati, o le loro ombre, sono in continua evoluzione.