Le imperfette verità alla Resa dei conti

Al Piccolo Bellini di Napoli in scena "La resa dei conti" di Michele Santeramo, regia di Peppino Mazzotta, con Daniele Russo e Andrea Di Casa

“Che cosa è mai l’uomo perché te ne curi?”: la domanda del salmista arriva dalla profondità dei secoli fino a noi e non è possibile eluderla, piena com’è di attesa ma anche di paura e, forse, di repressa rabbia. Paura e rabbia, si sa, sono emozioni gemelle che procedono di pari passo, l’una alimenta perversamente, pervicacemente, pretestuosamente l’altra, soprattutto nella notte insonne, nella notte della ricerca, della sofferenza, del disgusto di se stessi, del rimorso, forse: nel buio, nel silenzio, i pensieri acquistano una più forte e compiuta valenza, si fanno dolore, si fanno disperazione. In questa notte del pensiero e della ragione, in apparenza lontano da ogni possibile alba di un giorno nuovo, Michele Santeramo immerge, isolandoli da ogni pensabile rapporto col mondo dei “normali”, due esseri umani, più vicini, alla fine, di quanto non sembri, forse addirittura parti della stessa persona: La resa dei conti, il lavoro in questi giorni in scena al Piccolo Bellini di Napoli, dura all’incirca un’ora.

È un tempo stringato in cui non succede, in apparenza, nulla, se non nelle coscienze, un tempo che si dilata, tuttavia, a dismisura, nel silenzio degli sguardi di chi siede in platea, nel serrato dialogare dei due, un tempo che, in modo proporzionalmente inverso all’ansia claustrofobica e asfittica che le alte mura che circondano i protagonisti potrebbero generare, lentamente si apre a un barlume, sia pur flebile, di speranza e di vita vera e autentica. Peppino Mazzotta cura una regia volutamente non invadente, che risolve con discrezione certe apparenti contraddizioni di un testo che vive e si regge sulla dialettica e sulla problematicità più che sulla perfetta coerenza, stemperando alcune possibili fragilità, sublimandole invece in punti di forza, dirigendo, alla fine, quel che potremmo chiamare, sul modello d’una antica composizione così cara alla musica barocca, un Oratorio per due voci sole, possedendone, in fondo, lo stesso rigore formale, lo stesso afflato mistico e profondo.

In un luogo fuori dal tempo e dalla storia, di cui nulla sappiamo, se non che è chiuso da mura all’apparenza argillose e affocate, di cui intravediamo solo un parziale incrociarsi, e che poi sapremo non possedere né porte né finestre – un luogo dell’anima, dunque, o della mente – e da cui è impossibile entrare e uscire, sono due uomini. In apparenza sono lì da un tempo indefinito, noi che siamo entrati nella sala semibuia li abbiamo trovati già lì, uno è sveglio, siede con una coperta addosso su una piccola sedia, l’altro è steso su una cassa e dorme, entrambi sono vestiti in modo molto dimesso, anzi diremmo trasandato e poco pulito, certamente quelli che hanno addosso sono gli unici vestiti che possiedono. Sono, insomma, quei due uomini, in tutta evidenza, due scarti, espressione vivente dell’estremo esito della società dei consumi, che alla fine, dopo aver considerato ogni prodotto come consumabile in un lasso di tempo ben definito, trasformandolo definitivamente in rifiuto che andrà ad ingrossare a dismisura ciclopiche discariche, ha considerato scartabile pure l’essere umano che per qualche motivo non sia più utilizzabile, escludendolo anche dalle periferie e dai bassifondi, bandendolo definitivamente dal consorzio umano, minandone l’appartenenza alla società civile, rifiuto, avanzo, scarto, appunto.

Abbiamo conferma di tutto questo appena, abbassate le luci in sala, il primo personaggio comincia a parlare, una convinzione che si farà via via più forte, man mano che la pièce andrà avanti, secondo un andamento suo tipico, procedendo a gradi, svelandoci qualcosa per poi in parte contraddirlo, correggere il tiro, perché, in tutta evidenza, i due personaggi, ce ne accorgeremo subito, esprimono emozioni e sentimenti ma il più delle volte tacciono o mentono sui fatti che li hanno generati, solo col tempo, man mano che l’ora passa, acquistano reciproca fiducia, perdono progressivamente rabbia, fanno uscire fuori finalmente la paura che c’è sotto, in una sorta di rassegnata accettazione che, forse, potrebbe essere la premessa di una possibile salvezza.

Il primo personaggio – che Andrea Di Casa possiede in massimo grado l’arte sapiente e l’empatica comprensione di rendere umanissimo e dolorosamente ripiegato ma non vinto – comincia a parlare, anzi, apparentemente a straparlare, rivolgendo lo sguardo verso l’alto e colloquiando col “Padre suo celeste”: incalzato dal secondo personaggio, che nel frattempo si è svegliato, rivela di essere Gesù, ha perfino regolari documenti come il Codice Fiscale che provano senz’ombra di dubbio questa identità, ma che Gesù sia veramente tornato sulla terra non riusciamo a pensarlo nemmeno per un momento. Rispetto, infatti, all’illustre precedente letterario, il Gesù di Dostoevskij de La leggenda del Grande Inquisitore che Ivàn Karamazov legge al fratello Aljòsa, questo di stasera non è riconosciuto da nessuno, nel racconto invece “è comparso in silenzio, inavvertitamente, ma ecco – cosa strana – tutti Lo riconoscono… il popolo è attratto verso di Lui da una forza irresistibile, Lo circonda, Gli cresce intorno, Lo segue”.

Il problema di questo Gesù degli scarti, invece, è esattamente questo, farsi riconoscere, ottenere dagli altri l’evidenza patente di una nuova identità raggiunta, dimostrare in tal modo che sì è liberi di diventare qualcun altro, perfino Gesù, una volta fallita irreparabilmente la propria vita, liberi di migrare da un’esistenza all’altra senza problemi. Se questo, poi, sia un sogno o un incubo, se sia espressione di estrema, autentica libertà o di disastrosa e deleteria deresponsabilizzazione è esattamente l’interrogativo che La resa dei conti vuol suscitare, è come se l’Autore si provasse a scrivere un saggio sul libero arbitrio in forma drammatizzata, in modo che tesi e contraddittorio risultino dai dialoghi tra i personaggi: è piuttosto difficile, in casi come questo, riuscire perfettamente nell’intento, la noia è sempre dietro l’angolo, o dietro la prossima parola o il prossimo discorso, si rischia di essere terribilmente didascalici mettendo in bocca ai personaggi soluzioni – quelle dell’autore, evidentemente – già prêt-à-porter, confezionate e impacchettate, su cui si costruisce un recitare che risulta falso agli occhi, alle orecchie e al cuore.

Bisogna dare atto, invece, all’Autore – ma sono certo che sia il regista sia gli interpreti ci hanno messo ben più di uno zampino – che gran parte di questi rischi sono stati evitati, le battute risultano, vuoi per come sono state scritte, vuoi per come vengono interpretate, perfettamente naturali e mai verbose, le situazioni, che in più di un’occasione rischiano di sconfinare nel surreale o nel ridicolo, vengono perfettamente gestite da una regia vigilissima e accorta che ha, come detto, e come è delle perfette direzioni, l’eccelso pregio di risultare pressoché invisibile ai più.

Il secondo personaggio – Daniele Russo che, smessi i panni del Jennifer ruccelliano di gran successo, si conferma vincente nell’interpretazione amara e perfetta di personalità complesse e tormentate – si mostra scettico sull’identità del primo, non è consapevole, al contrario dell’altro, sul perché si trovi lì e soprattutto sul motivo per cui non possa andarsene da quello scomodo posto: è stato salvato, stava per essere investito da una macchina e “Gesù” lo ha salvato, una situazione che a me ha ricordato irresistibilmente il Boudu salvato dalle acque di Jean Renoir, clochard che decide di uccidersi, in quel caso gettandosi nelle acque della Senna, ma viene salvato da un libraio che lo conduce a casa sua offrendogli conforto.

Anche in questo caso il parallelo vale fino a un certo punto, è solo uno spunto, in tutta evidenza, da cui partire, per andare a parare altrove: anche lo scontroso “Boudu”, di fronte a un po’ di pane che “Gesù” spezza con aria ispirata e a una mezza birra – cibo provvidenziale piovuto “dall’alto” in un secchio attaccato ad lungo nastro rosso – si mostra più disposto a parlare. Ha perso tutto, si è ridotto in quello stato – prima possedeva “tutto quello che una persona normale deve possedere per essere felice, due genitori, una casa, un lavoro, una moglie, una macchina” – dopo aver perso la moglie, morta, fuggita, rapita, non si sa, uscita di casa e scomparsa, cercata in ogni dove, sparita, volatilizzata, sacrificato “tutto” nella ricerca, lavoro, auto, casa, “tutto”, vagabondo per amore, ha cercato alla fine di ammazzarsi sotto una macchina.

Anche in questo secondo caso è difficile credere all’uomo, troppe contraddizioni, troppi interrogativi, troppa rabbia mentre bestemmia, mentre impreca rancoroso contro la libertà che permette all’uomo la cattiveria: tanta rabbia, troppa rabbia spesso nascondono con l’aggressività la paura, la paura di noi stessi che veniamo a chieder conto delle nostre azioni, la paura di una possibile resa dei conti che si riveste, come nella reazione di attacco o fuga, d’aggressività contraddittoria e imprecante, quando invece ci rifugeremmo volentieri tremanti sotto un tavolo. No, ben presto sapremo la verità su ciascuno dei due personaggi, o meglio, un’altra possibile verità: questa volta ci dicono anche i loro nomi, Mario Parisi e Bartolomeo Guerra. Il primo è un prete spretato, un prete senza vocazione né misericordia, che provava repellenza e disgusto nel contatto con i corpi malati o febbricitanti o infetti del prossimo, che si è spinto, per questo, per rivalsa o per sfida, fino all’emulazione e all’introiezione nevrotica di un altissimo modello, fin dunque a sentirsi essere Gesù stesso, molto prossimo a sconfinare nella follia, intuiamo in questo risiedere i motivi della sua sospensione.

E anche l’altro, il vedovo inconsolabile, ha una verità diversa da raccontare, in fondo l’avevi già sospettato, la sua rovina, l’inesorabile progressione sua verso la sofferenza e la miseria nasconde ben più che una nevrosi, forse altro non è che senso di colpa per un oscuro delitto commesso, un crimine inutile consumato con leggerezza terribile e che nella perdurante impunità trova terreno fertile per un castigo diverso e ben più implacabile. È a questa prima inconsapevole età dell’oro che quell’uomo vorrebbe tornare, cancellare semplicemente con un tratto di penna quel delitto, non cerca, non desidera una impossibile seconda identità, più che altro una seconda opportunità: con ogni evidenza, anche questo è del tutto impossibile, non resta che al presunto “Gesù” che prenderne atto, riconoscere irrealizzabile ogni ipotesi di salvezza, aprire la porta, creando un varco in una parete, da cui far uscire l’uomo.

E tuttavia proprio quel gesto finale, quell’aprire le mura come Mosè le acque le Mar Rosso, far entrare la luce del giorno e le voci del mondo dentro al chiuso asfittico di quella stanza, fa acquistare inedita autorevolezza al primo uomo, apre forse alla speranza di una possibile salvezza del secondo, di un pentimento, di una resa dei conti finale, nell’esitazione smarrita che gli si legge negli occhi, un’opportunità che non consiste certo nel cominciare una improbabile vita nuova, né nel cancellare le ferite e gli inganni del passato, come non fossero mai esistiti, ma nell’accettarsi imperfetti, nel render ragione a noi stessi dei nostri errori: “l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato”.

PANORAMICA RECENSIONE
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le-imperfette-verita-alla-resa-dei-contiLa resa dei conti <br>di Michele Santeramo <br> <br>con Daniele Russo e Andrea Di Casa <br> <br>scene e costumi Lino Fiorito <br>luci Cesare Accetta <br>regia Peppino Mazzotta <br> <br>coproduzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, Fondazione Campania dei Festival – Napoli Teatro Festival Italia <br>In scena dal 21 al 26 gennaio 2020 <br>Durata 60 minuti <br>Napoli, Piccolo Bellini, 21 gennaio 2020