
Trambusto, strepito, panico, che succede? Hanno rubato 10.000 ducati ad Arpagone. Chi sarà stato, chi è l’infame ladro? Forse il figlio o la figlia – che a detta del padre succhiano danaro come sanguisughe?
Molière la sapeva lunga. Rifacendosi a un personaggio mitico come l’avaro, già stilizzato dall’autore latino Plauto, sfociato nella celeberrima commedia L’Avaro del 1668, egli scava nella lordura dell’animo umano, nell’eterno egoismo arido e nelle convenzioni orride, come il matrimonio combinato d’interesse – abbandonato da un po’ di tempo a questa parte, per fortuna (anche se tuttora praticato, in modo del tutto volontario, da una minoranza femminile).
Ugo Chiti ha snellito per l’occasione il testo e ha curato la regia, mentre Alessandro Benvenuti ha vestito i panni di Arpagone, l’odioso e patetico riccone, esilarante e ridicolo – fin quasi a provocare sentimenti di pena e indulgenza. Il risultato, anche grazie al prezioso contributo dell’attrice Giuliana Colzi nel ruolo di Frosina (sempre imponente e al contempo lieve), è stato decisamente gradevole e frizzante, con momenti autentici di divertissement non volgare (finalmente, dopo tanto piatto humour televisivo). Il ritmo incalzante di questa versione de L’Avaro, ha forse penalizzato il fenomeno sottile del misunderstanding, fondamentale in tutto il filone della commedia alla francese – di cui Molière è grande rappresentante – e della commedia all’italiana.
Il gioco degli equivoci si realizzava in maniera eccellente, ad esempio, nella versione interpretata da Paolo Stoppa, un Arpagone davvero paranoico e ossessivo. Ma questa è un’altra storia. E qui, la scenografia dark e surreale è il quid in più di una parabola classica ma non troppo, che si ripete a oltranza, tanti sono gli avari che ci attraversano la strada, ogni giorno, nella vita. E magari riuscissimo a ingannarli, a fin di bene, come fanno magnificamente, nella pièce, Marianna, Valerio, Elisa, Frosina&company.