La (poca) Ferocia di Betta Cianchini

Betta Cianchini, al Napoli Teatro Festival non convince con il suo Ferocia (lasciateci smettere questo spettacolo), storie di donne e femminicidio.

Betta Cianchini è una giovane autrice e attrice del panorama italiano, studiando un po’ la sua carriera emergono principalmente due cose: la prima è che le sue scelte recitative sono state sempre piuttosto eclettiche (basti pensare che uno degli spettacoli che l’ha vista maggiormente attiva è Dignità Autonome di Prostituzione accanto a Luciano Melchionna), la seconda è che da sempre si è mostrata interessata ad esplorare la figura della donna nella società da vari punti di vista (per citare alcuni suoi spettacoli: Per Grazia Ricevuta in occasione della rassegna “DonnaMostraDonna”, Tutto quello che gli uomini avrebbero dovuto sapere e che le donne non hanno mai detto, Dolce attesa… mica tanto); imboccando questa via però la trappola era dietro l’angolo e Cianchini ci è caduta in pieno.

Per parlare di donne al giorno d’oggi si finisce infatti quasi sempre a parlare di “femmicidio”, un tema complessissimo che è stato così a lungo dibattuto, analizzato, sviscerato e talvolta banalizzato che parlarne senza cadere in clamorosi scivoloni è un impresa ardua e purtroppo l’autrice e interprete di Ferocia (fateci smettere questo spettacolo), in scena in questi giorni al Napoli Teatro Festival non è riuscita ad evitare la caduta e il sottotitolo, è il caso di dirlo, pare leggere nella mente dello spettatore.

L’idea è quella di mettere insieme le narrazioni di tre donne diverse tra loro per storie ed estrazione sociale (Betta Cianchini, Lucia Bendia ed Elisabetta De Vito) accomunate dalla tragica morte avvenuta per mano dei loro mariti violenti. Nulla di nuovo, anzi un’idea che strizza (un po’ troppo) l’occhio al fortunatissimo spettacolo di Serena Dandini “Ferite a morte” sia per il format che per il tipo di narrazione, privando però l’originale dei suoi punti di forza.

Se Dandini ha avuto la maturità, la consapevolezza e soprattutto la leggerezza d’animo per trattare con ironia e sagacia un argomento così delicato, Cianchini non fa lo stesso e inciampa continuamente in tutti i cliché del caso anche quando cerca di alleggerire la scena; la macchietta della suocera inviperita perché la nuora non sa stirare le camicie, il melenso con cui viene descritto il primo incontro di una delle coppie o il romanaccio della terza donna (messo lì senza una sotterranea indagine sociologica) sono momenti di totale vuoto teatrale che alterano una scena che si regge già di per sé su un equilibrio oltremodo instabile e precario.

Il testo presenta un linguaggio irreale in cui termini obsoleti (e rimasti solo nella memoria di chi più o meno mezzo secolo fa ha sfogliato un dizionario di Devoto-Oli) si alternano a una lingua fintamente grezza e scimmiottescamente popolare.

Le attrici, forse sacrificate dal testo, non riescono a brillare sul palco rimanendo estranee alla parte che stanno recitando; solo Elisabetta De Vito (che aveva colpito il grande schermo qualche anno fa con una parte marginale ma recitata alla perfezione nel film “Non Essere Cattivo” di Claudio Calligari) riesce a trasmettere qualche emozione pur raccontando una storia noiosa e dal finale prevedibile.

Non è solo la lingua o l’idea di fondo ad avere dei problemi in questo spettacolo che appare come un ingranaggio che s’inceppa, anche le tre storie sono di per sé scontate e stantie; a ciò si aggiunge una cattiva coordinazione dei tempi delle narrazioni che dovrebbero creare un effetto armonico e corale, almeno negli intenti, andando in sincrono. La trovata di far muovere insieme i tre racconti su binari diversi ha un ottimo potenziale narrativo ma viene realizzata in maniera caotica: mentre una donna racconta di come è stata uccisa, l’altra sta ancora spiegando com’è iniziata la sua storia d’amore, mentre la terza sta avendo un figlio; il risultato è che lo spettatore appare confuso da questo entrare e uscire dalle vite delle protagoniste senza un ordine, perdendo i pezzi per la strada.

Qualcosa da salvare in Ferocia però c’è e sono i costumi e la scenografia di Giulia Drogo: visivamente belli e molto colorati, riescono a ravvivare la scena e dare luce alle protagoniste con cui l’ambientazione si armonizza alla perfezione.

A Cianchini va comunque detto un “Brava” per aver affrontato un tema di cui nonostante tutto è bene che se ne parli e per il tentativo, non del tutto riuscito ma originale, di provare a spiegare la violenza sulle donne dalla parte degli uomini visti non solo come carnefici ma anche come padri, mariti e figli.