
Il trenta gennaio del 1945 è una data che tutti gli amanti del teatro italiano dovrebbero ricordare, un vero e proprio albo signanda lapillo dies: appena finita la guerra, nella Capitale ancora occupata dagli americani, riaprì il più bel teatro di Roma con un lavoro affidato a un giovanotto dai nobili natali e dalle belle speranze. Arrivò per caso, quel giovane regista, all’Eliseo, con un solo film alle spalle, prodotto dalla Lux, guidata all’epoca da quel grande intellettuale e mecenate che era Riccardo Gualino: lo stesso produttore gli fece firmare un contratto, sedici giorni di prove, un copione controverso, tormentato, contestato, alla fine di gennaio il debutto.
E si scatenò il finimondo. La critica dell’epoca sottolineò l’audacia del testo, definendolo assolutamente spregiudicato dal punto di vista dell’insegnamento etico. Nonostante ciò, lo spettacolo fu accolto con entusiasmo, sottolineando sia l’apprezzamento per la qualità artistica dell’allestimento e delle interpretazioni, sia la novità sconvolgente del testo, che sotto l’apparenza del teatro borghese nascondeva invece inaudite novità. Quel giovane regista era Luchino Visconti, un allestimento come quello – in scena un letto sfatto, Andreina Pagnani in abiti trasandati e con i capelli mal tinti, scarmigliata come una Erinni che spingeva al limite dell’incesto l’amor filiale – in teatro non s’era mai visto e faceva improvvisamente diventare vecchio tutto l’apparato teatrale che ancora si nutriva di fondali dipinti e recitazione affettata: nasceva, quel trenta gennaio 1945 il teatro di regia, con tutto il bene e il male possibile.
E poi quel testo, quei Parenti terribili – volutamente errata traduzione di Les Parents terribles che Jean Cocteau aveva scritto all’approssimarsi della guerra – era rivoluzionario e scandaloso insieme: messo in scena al Théâtre des Ambassadeurs, nel 1938, ne venne vietata dopo qualche replica la rappresentazione che evocava incesti, sesso promiscuo e ambigui rapporti parentali, poi, nella Parigi occupata, nel 1941, la stampa collaborazionista la bollò inequivocabilmente come déprimant spectacle in cui la famiglia francese veniva rappresentata come preda de le proxénétisme, l’ordure morale, la prostitution la plus basse.
L’aveva scritta, Cocteau, in un momento particolare, dopo la rovinosa incursione nel disfunzionale medioevo de Les Chevaliers de la Table ronde e l’incontro con Jean Marais, un’avventura esaltante che poi è uno dei primi esempi conosciuti e riconosciuti di coppia maschile in Francia, un modo di vivere la propria omosessualità senza nasconderla e senza ostentarla. È per lui che Cocteau creò il personaggio di Michel, un ruolo moderne, vivant, excessif, in cui je devrais pleurer, rire et ne pas être beau, e lo fece scrivendo qualcosa in quello stile che fino a quel momento aveva aborrito, più adatto a incontrare il gusto popolare: quel che in Francia si chiama théâtre de boulevard, puro intrattenimento tra vaudeville e commedie di maniera, nascondendo tuttavia, sotto la patina del perfetto meccanismo arguto creato solo per la risata, ben altri contenuti, del tutto evidenti per chi appena appena si fermasse un attimo a considerarli.

Questa stessa pièce così densa di significati palesi e latenti, arriva, quasi novant’anni dopo la sua concezione e ottanta dopo la rivoluzione che seppe portare in terra italica, anche qui a Napoli, al Teatro Bellini, grazie a Filippo Dini, un’occasione per approfondire la riflessione sulla famiglia contemporanea – e sulla donna, in particolare – sulla scia di quella che, negli ultimi anni, ha saputo stimolare l’interesse e la curiosità del talentuoso regista.
S’immagina, allora, Dini, con il sostanziale contributo del disegno scenografico di Maria Spazzi – sono i costumi, invece, di Katarina Vukcevic – una Parigi ai giorni nostri come intima il copione, salvo che quella del Trentotto non c’è più, quella contemporanea ha basse pareti spezzate ad angoli retti, come fossero accostati monoliti la cui chiara opacità reagisce alla luci di Pasquale Mari – rispondendo alle giravolte emotive dei protagonisti – di volta in volta colorandosi di caldo o di freddo. Sulla destra, come prescritto, un anfratto angusto corrisponde al bagno che si intuisce bianco e molto illuminato, il gran letto d’Yvonne troneggia al centro, molto ampio e sossopra come la padrona, il piumone e i cuscini sprimacciati, mentre filtra sulla scena la luce lugubre dello stabile di fronte.
Tutto come da copione, dunque, se pure sapientemente ammodernato ai giorni contemporanei, tranne il significativo particolare che la mano dell’Autore prescrive come obbligatorio: le scene molto realistiche devono essere molto solide perché le porte possano sbattere, aggiungendo pure che Léo (Léonie) ripete di frequente: « La vostra è la casa delle porte che sbattono ». Probabilmente le porte che sbattono avrebbero fatto un po’ troppo Feydeau, suppongo, ma la concezione dello spazio che è propria del vaudeville che Cocteau volle assolutamente adottare, pur mutandone radicalmente il significato ai fini suoi, è tuttavia assolutamente rispettata nella sostanza anche da Dini, nell’accentuata sepimentazione degli spazi dell’interno in molteplici sottospazi che cercano a forza di compenetrarsi pur nella loro inconciliabilità, restituendo allo sguardo, l’apparenza dei parallelepipedi di cui è sostanzialmente costituita la stanza d’Yvonne, una sensazione d’affocata mancanza d’aria, accentuata dal soffitto che intuisci basso e dalla minaccia delle pareti, incombenti e sinistre: un anancasmo nevrotico che non sai se trasmesso dalle pareti ai protagonisti o da essi all’ambiente, in un perenne gioco a rimpiattino tra gli eroi del Carrozzone e l’humus che li nutre, la pista da circo che circoscrive il loro spazio vitale, piuttosto angusto pur se suscettibile di variazioni sul tema.
Perché svolgendosi la vicenda in tre giorni – mimesi ironicamente arguta dei tre atti d’una reale commedia borghese – si trasforma, quel risicato spazio della camera da letto padronale, nella casa di Madeleine, rispecchiando, nel suo molto ordine, quello della padrona di casa. Si alzano, allora, quelle pareti spezzate e angosciosamente frastagliate, per lasciar spazio ad una totale assenza di muri e limiti, il letto disfatto d’Yvonne diventa, con sottile corrispondenza, l’impeccabile divano di Madeleine, il parallelepipedo più a sinistra rivela al di sotto, sollevandosi, una scala a chiocciola che conduce al piano superiore, il cambiamento del luogo è, nella filosofia del vaudeville, l’occasione dove si esercita la facoltà di adattamento del personaggio, qui avviene l’agnizione di Madeleine che comprende come il suo maturo amante altri non sia che il padre del suo giovane innamorato, qui Georges concepisce la sua più grande invenzione, il terzo uomo, l’amante immaginario, un po’ più vecchio di Madeleine che riuscirà a far disamorare Michel senza fargli tuttavia scoprire l’amara verità.

Ma se, alla fine, al terzo giorno, tutto deve necessariamente tornare a quel che viene considerato l’ordine naturale, ogni stranezza vinta dallo schiacciasassi della morale borghese ipocrita e tartuffesca, rimane la grandissima prova degli attori che definiscono in modo perfetto quel che Dini chiama teatro capocomicale, teatro degli attori e per gli attori, quasi in contrapposizione al teatro di regia, di cui proprio Parenti terribili è stato, come abbiamo detto in premessa, primo vero esempio e banco di prova di gran successo in Italia: in qualche modo si chiude il cerchio, dunque, tra queste due affermazioni che sono due modi di intendere e di vivere questa gran passione che chiamiamo teatro.
Così, la regia asseconda volentieri il perfetto meccanismo che sta dietro il grande straparlare dei personaggi, oltre il chiacchiericcio vano che nasconde il dolore, il gran ritmo delle parole, nella bella, nuova e sfavillante traduzione di Monica Capuani, che sapientemente aggiorna la lingua al nostro vulgare, senza tema, ormai, di svelare nella crudezza e nella verità ciò che il perbenismo della metà del Secolo breve aveva trattenuto, ovattato, smussato. E pure il tormentone dell’in-cro-ya-ble – che l’Autore aveva mutuato dal for-mi-da-ble con cui Marais contrappuntava le sue frasi – viene aggiornato in unbelievable, con un inglesismo ormai accettato nel nostro parlar comune.
Così, finisce per giocarsi, tutto il ritmo inesausto della pièce, nel contrasto tra regolarità e irregolarità, ordine e disordine, amoralità e moralità borghese, s’acqueta solo alla fine, di fronte alla morte che non ti aspetti, quando la maschera si dilegua e ricompare il volto, la carne, il sangue vivo. E nel finale si cela pure la chiave per comprendere appieno il sogno di Yvonne, che come un’ouverture Dini ha sentito l’esigenza di premettere all’intera pièce, un rapido sguardo sui rapporti tra i protagonisti visti, in una sorta di incubo premonitore, da questa donna madre, come la chiama il regista, in contrapposizione alla donna moglie di Casa di bambola e alla donna figlia di Agosto ad Osage County, chiudendo una non voluta e non programmata trilogia sui vari aspetti del donnesco.
Il sogno – o la visione allucinata – di Yvonne, nel pieno del precoma insulinico che apre la pièce, costituisce una vera e propria parentesi surrealista, ben al dì là e oltre il realismo naturalista in cui dovrebbe svolgersi la vicenda, contraddicendolo e confermandolo al tempo stesso: oltre a vedersi, naturalmente, in un ardente amplesso, finalmente, con il figlio Michel, che tuttavia è coperto di sangue, l’immaginazione d’Yvonne contempla pure Georges e Léonie che ballano significativamente tra loro e ancora lei stessa alle prese con uno specchio e dunque con un’immagine di sé in cui non ritrovarsi più, una sorta d’identico clone del tutto estraneo ed alieno.
E poi c’è una misteriosa figura di sposa dal capo coperto e dalle dita lunghissime e nere, una sorta di donna ragno che viene a disturbare gli altri personaggi e a tessere la sua tela in cui, presumibilmente, far cadere gli altri personaggi. Si può pensare, con ovvia e troppo scontata interpretazione che questa figura di donna inquietante e minacciosa sia quella che prima o poi verrà a toglierle il suo adorato Michel e che poi s’incarnerà in Madeleine; tuttavia, quando alla fine Yvonne muore, Léonie la rivestirà con quello stesso abito da sposa: quella Erinni non era dunque che ulteriore doppio di sé, nemesi e tormentosa personificazione dei propri limiti, donna ragno che tesse una tela che si rivelerà estremamente fragile, alla fine, soccombendo al realismo borghese. Perché su quella fragile tela non faranno che rincorrersi, quei personaggi, senza trovar pace, ridendo per non piangere, per non cedere alla disperazione d’inseguire il proprio fantasma d’amore, Yvonne che ama Michel che ama Madeleine che ama Georges che ama Léonie, una catena che nell’inesausta ricerca dell’amore finisce per negarlo del tutto e che nasconde, fino alla fine, il dolore sotto la cenere delle diverse apparenze.

Il personaggio di Yvonne è forse il più centrale nella rosa dei protagonisti, incarnato da Maria Angela Granelli con grande partecipazione emotiva, sicuramente è, nell’ambito del Carrozzone familiare, la figura più estremista, eccentrica anche rispetto alle disfunzionalità complessive del complesso dei familiari. Così, la caratterizzazione dell’attrice porta al suo estremo compimento questa figura di madre pseudoincestuosa – paradossale e satirica finale mutazione di certo possessivo amore materno – la sua recitazione è tutta giocata sui toni alti, esasperati, la voce sempre di un decibel più in alto quando si trova a recitare il suo ruolo nel mezzo della pista del circo familiare, quasi sussurrata e inudibile se da sola, come all’inizio quando canticchia un quasi bisbigliato Papaveri e papere, espressione – chissà – della sua inadeguatezza e del suo sentirsi vittima.
Perché poi vittime lo sono un po’ tutti, lo è certamente Michel, che Cosimo Grilli riesce a rendere con disarmante ingenuità e innocenza: sarà, fino alla fine, l’unico a non comprendere fino in fondo la verità sul complicato intrecciarsi di rapporti tra i vari terribili parenti, l’unico che non avrà ordito trame, inventato storie, vissuto duplici amori, l’unico a non aver utilizzato, per i propri fini detti e non detti, la menzogna, perché, come dice Madeleine, di dentro non c’è nessuno al mondo più pulito. Anche negli scatti d’ira, repentini e improvvisi, per cui riesce a passare dalla tranquillità quasi catatonica alla furia più sfrenata, Grilli mostra una gran controllo della postura e dell’espressione, il suo personaggio a me ha ricordato molto il giovane Holden con cui trovo grandi affinità proprio nella fondamentale innocenza di fondo che sa farsi furia incontrollata, fatte salve, naturalmente, le profonde differenze culturali e di contesto.
Giulia Briata è l’ottima interprete di un personaggio, la candida Madeleine, che dovrebbe risultare, nel confronto serrato con le disfunzioni della famiglia di Georges e Michel, la normalità, lei, come la sua casa, dovrebbe risultare ordinata e luminosa, ha un lavoro, al contrario dei suoi uomini che vivono dell’eredità di Léonie: il fatto è che lei è esattamente la catalizzatrice del conflitto, la pietra d’inciampo su cui cadono i personaggi e le loro illusioni d’amore. Riesce molto bene, l’interprete, a restituirci la sostanziale ambiguità del personaggio, che dichiara di amare tutti e due gli uomini, al di fuori di una incomprensibile morale borghese potrebbe tranquillamente continuare il suo duplice rapporto d’amore, se non fosse che sono padre e figlio… ma forse, se loro fossero consenzienti, magari pure.
E poi, naturalmente, c’è Georges, il sornione capo di questa sgangherata famiglia che naturalmente Filippo Dini riserva a sé, dotandolo di un bradipo torpore da cui tuttavia sa uscire con prontezza e con acume alla bisogna, liquidando con spietata lucidità l’innamorata Madeleine, mal sopportando, tuttavia, sottosotto, che l’amante gli preferisca il figlio: lui, marito insoddisfatto, padre imperfetto, amante egoista, inventore fallito, sembra a tratti riecheggiare un classico raisonneur pirandelliano inventandosi il machiavellico marchingegno che fallirà per l’intervento dell’onnipresente zia Léonie.
E tutto sa e dirige, zia Léonie, che non esita a manipolare ai suoi fini uomini e cose, a ordire trame, convincere, minacciare, ordinare: ha la capacità, Milvia Marigliano, da grande attrice qual è, di renderci simpatico perfino questo strano e per certi versi alieno personaggio di zia così onnipresente in tante famiglie, del tutto disponibile e generosa salvo farti pagare, dopo, il conto salato da esigere alla tua riconoscenza per tanta comprensione. Metter le mani su Georges di cui è stata in gioventù innamorata sembra essere il fine ultimo dei suoi maneggi, non a caso canta con partecipazione Tornerai da me… perché l’unico sogno sei del mio cuor, se fossimo in un dramma di Ibsen sarebbe la vera protagonista pur lasciando le apparenze ad altri, ma forse anche in questa surrealtà è così, un gran personaggio per una grande attrice: in fondo, quanto di meglio possiamo aspettarci dal teatro, in tutte le epoche e a tutte le latitudini.