
Entrare in contatto con la parabola artistica di Saverio La Ruina significa prima di tutto attraversare un’esperienza umana. Così è stato per la sottoscritta dopo Dissonorata e Polvere e così si è ripetuto quasi con la sacralità di un rituale per La borto, in scena al teatro Quirino di Roma in data secca il 15 aprile 2025. Il direttore artistico di quella piccola perla di festival che è Primavera Teatri a Castrovillari, chiude la sua trilogia a Roma sul mondo femminile e lo fa con la sua cifra stilistica di marca. Unica.
Già un uomo che parla di donne, di stupri, violenze, aborto, patriarcato. Un respiro profondo e intenso che restituisce lo sguardo attento e pulito di un artista in grado di calarsi completamente nei panni dell’altro sesso senza brutalizzarlo o, peggio, offrirne pezzi ridicolizzati a buon mercato. Anzi restituendo piuttosto al pubblico una purezza d’intenti rarissima. Specie di questi tempi pregni di ingloriose retrocessioni in fatto di emancipazione, non di rado a braccetto con tristi operazioni di pinkwashing. A buon intenditor…
La borto è la storia di una piccola, piccolissima donna del sud che non ancora maggiorenne viene venduta a un uomo qualunque, decisamente lontano nell’aspetto e nei modi dall’ideale romantico che poteva costruirsi una ragazzina. Un uomo che la spinge a gravidanze multiple; sette, continue, reiterate che trasformano la maternità in un supplizio. Per Vittoria la protagonista, come per tutte le altre donne del paese. Costrette loro malgrado a vivere per sempre come oggetto di un mero mercimonio e per questo idealmente riunite in una comunità solidale.
Eccole allora escogitare in gruppo le strategie per dribblare l’incontro coniugale inevitabilmente riproduttivo, con la conseguente gestazione forzata a suon di “arrangiati”, scandidi dagli uomini messi a parte dell’ennesimo figlio in arrivo. Eccole insieme confrontarsi nel dolore, nell’attesa, nella speranza di guadagnarsi un minuscolo spazio di libertà. Prima la scusa delle preghiere, poi del corredo da cucire, ma non basta.
Il calvario femminile allora cerca appigli perfino all’inferno, dove la comune “morale” spinge quelle che ricorrono alle mammane per abortire. Pance bucate con aghi da calza, intrugli e lavande casalinghe, dolori atroci, perdita dell’udito o della vista, perfino la morte. Ma neppure questo basta a evitare il disprezzo di chi le chiama assassine. Non basta il corpo misurato, scavato con gli sguardi, finanche offeso senza remore per pagarsi l’ingresso in società da mogli e madri riconosciute.

Non basta neppure il tempo che appanna le istanze ma non le cancella e così quando anche la nipote quindicenne di Vittoria ricorrerà all’interruzione volontaria di gravidanza, ora in un mondo “nuovo” dove l’atto è fragilmente legalizzato, torneranno i vecchi, lorori schemi. Ancora sorprendentemente resistenti. Una giovane donna che rinuncia scentemente alla maternità piazzata quasi con beffardo scherno in una stanza piena di partorienti. Non è teatro. Purtroppo.
Saverio La Ruina racconta ancora una volta col semplice ausilio della voce e dei gesti, accompagnato dall’intensa partitura musicale di Gianfranco De Franco, un mondo che nuovo, non lo è mai diventato. Non del tutto. Un racconto a tratti ironico, in altri passaggi profondissimo, commovente e indimenticabile. Una regia lucida e asciutta che semplicemente esiste con La Ruina stesso sul palco. La sua parola impastata di dialetto è come una nenia lontana che incanta e lega sguardi e orecchie dello spettatore. Ogni immagine evocata sembra quasi farsi materia viva, concreta e al tempo stesso volatile, leggera, sussurrante. Entra piano nella testa e scende nell’anima, quasi come un atto generativo, stavolta desideratissimo, in cui lasciar crescere pensieri di condivisione e umiltà.
Impossibile trovare per me miglior chiosa di un grazie.