
[rating=4] «Nella vita la gente non si spara, non si impicca, non fa dichiarazioni d’amore ogni momento. Né si dicono ad ogni momento cose intelligenti. La gente per lo più beve, mangia, fa la corte, dice sciocchezze. Dunque bisogna che tutto questo si veda sulla scena. Bisogna fare una commedia dove la gente venga, vada via, mangi, parli del tempo, giochi a carte. Ma non perché questo serve all’autore, ma perché così avviene nella vita reale». La famosa notazione di Cechov ben s’addice a questo prezioso testo di Giuseppe Patroni Griffi che apre la Stagione dello Stabile napoletano, qui al Mercadante, per la riduzione e regia di Francesco Saponaro: lo scrisse, il commediografo napoletano (sperando che non s’adonti, di lassù, come l’amico suo La Capria quando dicono che è scrittore napoletano), nel 1963, fu messo in scena in quell’anno per la regia dell’altro amico suo Francesco Rosi con protagonista Lilla Brignone e con Pupella Maggio, Pasquale Squitieri, Giancarlo Giannini, per esser poi dimenticato: destino assurdo, se si pensa che molti lo considerano il miglior dramma da lui scritto, con leggerezza di mano, durezza del pensiero e agrodolce poesia.
Il contrasto generazionale tra gli adulti, vicini a sottoscrivere il fallimento delle loro aspirazioni, finite col fascismo, la guerra e la miseria, e i giovani che con impeto si apprestano a costruire il mondo nuovo, si risolve e trova una sua integrazione e sintesi nel rapporto d’amicizia tra la protagonista Mariella Bagnoli (una splendida Mascia Musy, che sa cogliere tutte le sfumature di un personaggio a tutto tondo), “impagabile, una giostra di tutti i valori, idee, principi, fantasie che lei fa girare vorticosamente” e un amico del figlio, Alfredino (Eduardo Scarpetta, che ce ne dà un ritratto convincente e realista), che si sente naturalmente parte delle aspirazioni e della voglia di cambiare della gioventù dell’epoca – di tutte le gioventù – pur vivendo questi sentimenti con l’incertezza che deriva dall’attenta osservazione (forse dal paura) della realtà, e che in qualche modo è l’alter-ego dell’autore.
Attorno a loro, un coro di personaggi disegna una famiglia allargata nella Napoli che, uscita dalle miserie e dalla macerie della guerra, colpita a fondo ma non vinta, guarda la ricostruzione dei primi anni del dopoguerra con l’occhio disincantato del disinganno. Ed ecco, allora, un gruppo d’amiche, fra cui la più cara, Gennara (un’efficacissima Fulvia Carotenuto), e tutte le altre, borghesi colte e piene di humour (Imma Villa, Antonella Stefanucci, Valentina Curatoli) che giocano a poker a casa di Mariella (pagandole l’affitto del tavolo), mentre l’ex servetta di casa, Pupatella (Clio Cipolletta), si prostituisce nella stanza accanto col soldato americano (anche lei paga doverosamente il dovuto alla padrona di casa); ecco il figlio Roberto, “troppo intelligente, troppo precoce” (Edoardo Sorgente che disegna un personaggio introverso e tormentato) che lavora precariamente per la radio degli occupanti trasmettendo musica di Shostakovich e che sogna di andare a Roma (fuggirà con la fidanzata Olga, interpretata da Giorgia Coco, all’insaputa della madre).
E pure Mariella sogna Roma, il luogo della redenzione, della possibile realizzazione dei sogni e delle aspirazioni, l’inesausta e favolosa Mosca delle Sorelle cechoviane che un po’ rivivono in questa pièce: tutti i personaggi, per la verità, si misurano con la disillusione, che è sentimento prevalente, con sogni inevitabilmente distrutti a contatto con la dura realtà: il colpo viene accusato da tutti, tutti cercano in qualche modo di resistere, di sperare, d’illudersi, oscillando e situandosi tra i due estremi di chi non crede in nulla (il personaggio di Michele, interpretato da Carmine Borrino, giovane amante di Gennara, “uomo senza ideali, qualunquista per vocazione”), e Mariella, sempre ottimista, anche di fronte alla morte: i sogni aiutano a vivere ma alla fine occorre arrendersi alla realtà, “resisterò finché posso, poi mi arrenderò” dirà Alfredino a Mariella quasi a giustificare l’inedia sua. Al centro, il personaggio del marito di Gennara, direttore d’orchestra fanatico della musica dodecafonica (un superlativo Tonino Taiuti), simbolo della Napoli colta, aperta alle novità e al mondo, colpita a morte, forse in modo definitivo, prima dal fascismo e poi dalla guerra: “fujtevenne, fujtevenne”, dice, sperando forse in un risveglio del Vesuvio che almeno ci mostrerebbe d’essere ancora vivi. La “nuttata” eduardiana di Napoli milionaria è passata, ha lasciato rovine, l’alba del mondo nuovo non sembra così invitante e chiara come avrebbe potuto essere: alla fine anche Mariella andrà a Roma, ma rischiando di chiudersi in se stessa, d’avvizzire accanto al figlio ormai troppo preso dai suoi problemi: tornerà a Napoli per morire, consapevole e serena come sempre, con gli occhi asciutti.
La regia di Francesco Saponaro possiede la sapienza della mente – come son belli quegli assiemi affollati da tanti personaggi che intersecano i loro dialoghi come un ensemble musicale, come la scena del primo quadro con le due coppie Roberto-Olga e Michele-Gennara (non ricorda forse un po’ La bohème, con doppio duetto alla barrière d’Enfer?) – e la comprensione del cuore, sapendo indagare le più tenui sfumature che altro alludono e che oltre rinviano, ben al di là dell’immediato significato o, meglio, in una ricercata e raffinata molteplicità di segni e valori. Le scene di Lino Fiorito e le luci di Cesare Accetta (i tre lavorano insieme da tempo) son di grande aiuto in un dramma come questo, dove tanto contano le città e le case.
Così, la casa di Mariella (“quante bombe ha preso questa casa”) del primo quadro è fatta – sul fondo l’icona inconfondibile del Vesuvio – di muri scrostati che non si connettono tra loro, una casa che, riflettendo l’animo delle persone che ospita, è degradata, sporca, ma che rimane aperta: sconnessa, forse, ma pronta ad accogliere e comprendere, senza chiusure, un po’ come la musica atonale di Schoenberg tanto amata dal marito di Gennara, apparentemente astrusa e slegata, ma che possiede in sé il segreto della felicità, perché nessun elemento prevale sull’altro: una casa che vive e si lascia vivere, esplicitamente al di sopra e al di là delle regole degli uomini, come la sua proprietaria. La casa di Roberto, nella Roma tanto sognata, ha invece mura che supponiamo solide e la città colonne di pietra e marmo, pur se non le vediamo: Roma è un miraggio giallo e corrusco, una fatamorgana che s’affianca, in parte si sovrappone, ma non cancella, la Napoli vesuviana sul fondo. È certamente moderna, la casa, priva senz’altro di “scarafaggi”, fredda ed efficiente, dagli arredi un po’ pomposi e pretenziosi, tanto da somigliare alla musica preferita da Roberto, quella Quinta di Shostakovich, il cui attacco spesso ascoltiamo nel corso del dramma, dall’ironico ottimismo forzato e artefatto e che altro non è se non la resa dei sogni di fronte alla forza della realtà e della storia; fino all’ultimo quadro, dove nulla esiste più, lo spazio è puro pensiero astratto, vuoto del tutto se non per la poltrona enorme che accoglie una Mariella che appare, per contrasto, un po’ smagrita e piccola, nel buio assoluto: nero che si riempie, tuttavia, del mondo intero, delle città invisibili e incognite e tuttavia abitate pur senza esserci mai stati, delle persone amate pur senza mai averle conosciute.
Spazio e tempo perdono allora il loro rigoroso significato, diventano possibili relatività del nostro essere, perché le città s’intersecano e s’incrociano ogni giorno le une sulle altre, definendo spazi nuovi e più veri, come le generazioni, i padri con i figli e i figli con i nipoti, in un mutuo riconoscersi in un tempo nuovo sempre carico di novità che fa perdere ogni connotazione negativa perfino alla morte: attesa e serena accettazione chiudono così, prima del prolungato applauso, una messa in scena per molti aspetti esemplare.