Il Condor: il riscatto negato del gregario

Vittoria sportiva e sconfitta umana nel testo di Clementi in scena al Belli

Camillo Grassi con "Il condor" in scena al Teatro belli di Roma dal 23 al 25 febbraio 2024.
Camillo Grassi con "Il condor" in scena al Teatro belli di Roma dal 23 al 25 febbraio 2024.

Nel 2016 il giornalista Andrea Ballocchi dedicò un testo ad Andrea “brontolo” Noè, un nome che ai più non dice molto, ma per i cultori del ciclismo è invece diventato un’icona. Non per i motivi che ci si potrebbe immaginare tradizionalmente. Noè ha in qualche modo vestito i panni di un piccolo eroe della sconfitta. Il più “vecchio” a indossare, per un paio di volte appena, la maglia rosa, la sua parabola sportiva si è trasformata lo stesso in un esempio di generosità e gioco di squadra. Già perché Noè nel “circo a pedali” in cui talvolta si trasformano le tappe del Giro, ha ricoperto il forse ingrato ruolo del gregario. Come Bettini, gregario di Bartoli, Indurian, Scarponi, Froome Ullrich e tanti altri. “Quelli che non vincono”, i miles senza gradi che però portano al podio i campioni. Non si parla mai di loro, un po’ come i mediani nel calcio, ma le loro storie riescono più di altre a colpirci.

Come non amare chi butta il cuore, non fra le stelle, ma in mezzo ai raggi di una bici, straziando muscoli e polmoni al solo scopo di servire la vittoria di un altro? Sì ci piacciono le loro storie di mancato riscatto, perché forse in loro riusciamo più facilmente a riconoscerci. Così “Il Condor”, protagonista del testo di Gianni Clementi, in scena al Teatro Belli di Roma dal 23 al 25 febbraio in seno alla rassegna EXPO dedicata al teatro italiano contemporaneo. A vestirne la maglia, è il caso di dire, nient’affatto schiaparelli, ma piuttosto verde (speranza?) Camillo Grassi, che regala al pubblico una performance eccellente.

Un monologo serrato e senza speranza sulla parabola umana di un uomo destinato a perdere per mestiere, uno la cui mission nella vita sembra essere soltanto quella di “guardare culi”. Quelli degli altri ciclisti, i “migliori”, gli “optimates” che staccano la folla degli altri soldati pedalanti per vincere la tappa. Ma ecco il sogno, la gloria finalmente vicina, l’idea che nasce dalla genuina amicizia fra due gregari: uno italiano e l’altro spagnolo, come in una vecchia barzelletta che può trasformarsi in rivincita. C’è però un prezzo da pagare e per assurdo questo prezzo è il cortocircuito nella lealtà, per cui un gregario deve per contratto e passione firmare col proprio sangue e sudore.

Gianni Clementi autore de "Il Condor".
Gianni Clementi autore de “Il Condor”.

Il testo di Clementi devia dal tracciato a cui ci ha abituati e non lascia scampo nemmeno sulla promessa empatica del personaggio, che fin da subito invece si rivela ostile e rugginoso. Non chiede e non concede quella pietas umana che forse è riservata solo ai grandi della pista, quelli che per una volta, una sola volta, sceglie di staccare assieme all’amico, ultimo posticcio “campione” a cui è disposto, stavolta per onore e sincero affetto, a cedere il tanto sospirato primo posto.

La drammaturgia umanissima di questo piccolo eroe al contrario è un meccanismo serrato, stretto sulle curve della vita e dei tornanti di montagna dove “Il Condor” sogna finalmente di volare, prima che il destino arrivi a spezzare la falcata col suo conto troppo amaro. Difficile entrare subito dentro la storia, che invece fermenta piano nei giorni a seguire e colma quel distacco apparente verso lo spettatore meno interessato all’universo ciclistico. In fondo si parla di materia che va oltre la mera competizione sportiva e che parla piuttosto di quanto per ciascuno di noi sia importante sentirsi riconosciuti.

Non delude nemmeno la regia di Massimo Venturiello, che costruisce attorno al personaggio un micromondo ocra sbiadito e solitario da clochard, fra ritagli di giornale ingialliti e profumo di caffè. Chicca per pochi lo specchio, che a fine spettacolo, rimbalzando sulla luce di un faro, restituisce uno spaccato di poltroncine rosse irrorate che sembrano chiedere pure il loro silenzioso riconoscimento. Il teatro dopotutto è uno specchio e questo minuscolo racconto sugli ultimi si offre al pubblico proprio come riflesso privilegiato, sul quale interrogarsi a proposito di quanto siamo disposti a sacrificare per occultare anche solo per un attimo la nostra piccolezza.

Last but not least Camillo Grassi. Che dire? Non è semplicemente un interprete, lui è il personaggio, col suo modo rude e scostante così lontano dallo stereotipo dell’emiliano aperto e accogliente, snocciola piano sul palco un talento mimetico a dir poco impressionante. Che bravo! Insomma un lavoro prezioso, da capire e comprendere con lungo passo, specie per chi ama l’universo della commedia agrodolce di Clementi, che qui non lascia traccia e anzi forse segna un passaggio autorale nuovo, completamente diverso nella parabola artistica del suo creatore. La pièce d’altra parte sembra seguire piuttosto l’audace tracciato del condor, che può volare senza sbattere le ali anche per ore. Il risultato è una metafora scenica incastrata a fondo nelle pieghe o piaghe umane, che di primo impatto sembra smarrirci. È solo il vento sulla faccia del ciclista ostinato, del rapace che sfida il canyon a piume ferme, dell’uomo che sogna, ma forse invece rifugge, un improbabile e poco attraente mondo senza salite.