
[rating=4] È bianco, Il giardino dei ciliegi messo in scena qui al Napoli Teatro Festival da Luca de Fusco, che del Festival e del Teatro Stabile di Napoli è direttore: bianco come la (forse perduta, chissà se mai esistita) innocenza, o come la stanza che (“ancora”) è chiamata dei bambini, o come la più famosa delle mise en scène, quella di Giorgio Strehler del 1973, che in qualche modo ha segnato lo spartiacque nel mondo di intendere e di rappresentare il Giardino e Čechov in generale. Diceva quel regista che il meccanismo teatrale del Giardino è come un gioco di tre scatole cinesi, una dentro l’altra, a stretto contatto.
La prima scatola è quella del “vero”, della realtà – che è pur sempre realtà teatrale, si badi, ma, per quanto possibile, realtà “vera” – che narra la storia, la trama, il fatto: appartengono a questa scatola i personaggi, Gaiev, Ljuba e tutti gli altri, con il loro carico di umanità e di vissuti personali (e la trama, nel Giardino, c’è, al di là di ciò che dicon tanti). La seconda scatola è quella della “storia”: appartengono a quest’ambito tutte le riflessioni sulle categorie storiche che il giardino interseca e – in qualche modo – possiede ed anima. Così, ecco il risalto sull’identità di “classe” dei personaggi: il loro appartenere cioè alla stinta borghesia possidente asfittica e apatica, ovvero al nuovo che indistintamente confusamente avanza tra annunci di rivoluzione e velleità capitalistiche. Si badi che gli stessi personaggi, gli stessi oggetti, gli stessi gesti che appartengono alla prima scatola appartengono anche alla seconda, ma in qualche modo leggermente spostati, “straniati”, sì da apparire dai contorni forse meno netti, ma più ricchi, come in un ritratto di Francis Bacon, che descrive, certo, una realtà “vera”, ma che contiene, nello stesso identico spazio, un riferimento costante ad una realtà “ulteriore”, più generale ma non per questo più generica o meno vera e puntuale. La terza scatola è la scatola della vita, che le altre contiene e in qualche modo provvede di ultimo senso: l’umanità che compie le sue gesta e le sue battaglie e che nasce e poi muore, nell’eternità della storia. Così, accanto alla minuta realtà delle cose familiari, proiettata sulla grande storia degli uomini, la terza scatola dona all’insieme una dimensione che potremmo dirsi metafisica o religiosa. Quando si mette in scena il Giardino, si dovrebbe tener conto delle tre scatole e rappresentarlo cercando di mantenere in equilibrio le tre dimensioni. Oppure, con atto deliberato e libero, scegliere di accentuare l’uno o l’altro degli aspetti.
Come si è regolato de Fusco? La sua scelta è stata prima d’ogni altra cosa sottolineare la presunta mediterraneità – anzi, napoletanità – del Giardino, tracciando un suggestivo parallelo tra lo spirito russo e quello napoletano, accostando quindi non solo l’incertezza e l’indeterminatezza della borghesia russa che viene rappresentata nel Giardino con quella tipica dell’animo napoletano: anche la struttura stessa dell’opera viene percepita dal regista in qualche modo – e per arcani legami – vicina alla napolitudine, perennemente in bilico – com’essa appare essere – tra umorismo e dramma, tra pianto e risata. E che questo non sia mero dato emozionale – che appartiene al comune sentire, cioè – viene affermato anche storicamente: non s’è passati, noi e loro, attraverso il secolo breve, o piuttosto non se n’è avuta coscienza, direttamente trasmutando dall’ottocento alla post-modernità.
Così, la vicenda di Ljuba (interpretata da Gaia Aprea seducente seduttiva) e del fratello Gaiev (un Paolo Cresta quasi sperelliano), che resistono – più per inerzia che per forza – alle sirene capitalistiche del “fare” del commerciante Lopachin (Claudio Di Palma dalla forte presenza scenica), si dipana tra presagi negativi, rifugi in un passato impossibile, profezie di un futuro ricco o felice da parte di persone – tutte – incapaci di vivere la dimensione del presente. In ogni caso, sicuramente la scelta del regista possiede grande fascino e potenza visiva, grazie anche alle scene – glaciali oniriche magrittiane di Maurizio Balò: basti pensare alla scena del ballo (musiche di Ran Bagno e coreografia di Noa Wertheim) che coagula e rende visibile e fisica la tensione dovuta all’attesa dell’asta e che manifesta – ove manchi il resto – l’anima e il pensiero dei personaggi e delle loro storie: e se da un lato il gran ballo fa tornare in mente il Visconti del Gattopardo – anche qui tutto deve cambiare perché nulla cambi – dall’altro non possiamo non pensare al Titanic che affonda col suo carico umano mentre suona la musica e si balla sul ponte e si fa festa. Poi la notizia arriva: Lopachin ha vinto, gli alberi verranno abbattuti. S’innalza un muro ad occupare la scena, e da una squarciata crepa del muro la famiglia darà l’ultimo addio al giardino, simbolo ormai di un mondo perduto – forse esistito soltanto nella fantasia.