
[rating=4] Una luce orizzontale attraversa il palco buio, lo accarezza da parte a parte, prima che le altre lampade dall’alto la smorzino tenuamente e lentamente. La scenografia, una stanza con soffitto quasi squarciata da cui si sbircia una porta sul retro, sembra per un attimo un’opera d’arte, la sua incompletezza è quasi opprimente, le sue pareti sono circondate dalle luci sceniche in vista, quindi assisteremo ad una storia, è ben chiaro che siamo gli spettatori di un fatto e non parte di esso.
La regia di Binasco viene fuori da questi dettagli, piccoli e apparentemente insignificanti, ma che comunicano subito sensazioni ed emozioni: i colpi sordi sull’asfalto dei tacchi dei soldati nazisti entrano in scena dalla finestra che non emette alcuna luce, sembra di assistere ad “un brutto sogno”. Il magnifico testo di Eric-Emmanuel Schmitt “Il visitatore”, rappresentato al teatro Duse di Bologna da Alessandro Haber e Alessio Boni, è schietto e intelligente. Un vecchio e malato Freud (Haber) è combattuto fra la possibilità di restare nella sua amata Vienna, dove ha passato tutta la sua giovinezza ma che ormai è accerchiata dalla Gestapo, e quella di fuggire. Lui ha il “privilegio odioso di potersene andare”, è Freud, ma è indeciso fra sua figlia che lo prega di partire e la sua coscienza che lo vorrebbe a fianco di tutti i suoi amici ebrei che verranno da lì a poco deportati.
La violenza nazista si materializza per mezzo del grottesco soldato omosessuale e “quasi ebreo” che si fa insultare dalla figlia di Freud (“con le donne non ce la fai a brillare come i tuoi stivali”) e che la porta in caserma. D’altra parte il tema dello sbeffeggio e la presa in giro del regime nazifascista è un tema caro a Schmitt, che, ne “La parte dell’Altro” e in “Dopo la luce, l’ombra”, si immagina come sarebbe stata la vita del führer se non fosse stato respinto dalla Scuola delle Belle Arti di Vienna nel 1908. La solitudine che si viene a creare nella casa è il terreno di gioco per una partita giocata ad armi pari fra ateismo e religione, realtà e sogno, inconscio e razionalità: un uomo spunta dal nulla, da un telo nero, appare dall’ombra. E’ il visitatore (Boni), uno straniero, un pazzo di cui nessuno conosce l’identità, “se anche ve lo dicessi non ci credereste”, che afferma, anzi ci fa intuire non dicendolo mai direttamente, di essere Dio. L’ateo Freud vacilla sotto il fuoco di fila delle argomentazioni, sembra che la vecchiaia e la malattia l’abbiano tolto dal suo piedistallo di fermezza ed autorevolezza per regalarcelo come un amabile vecchietto, quasi tenero. Il dottore psicanalizza il barbone, lo ipnotizza, lo incalza con mille domande, sembra essere più desideroso di conferme riguardo la sua identità ed esistenza che di smentite.
Il testo è asciutto e diretto, non si perde in riflessioni filosofiche e teologiche: “Dio se esiste è solo un demonio” perché “indifferente al dolore degli uomini”, ma Dio ribatte che è proprio “l’uomo che si fa carico dell’uomo”, inventando medicine e terapie contro la sofferenza. “Perché l’hai fatto questo mondo?”, “per amore”. “Perché siete venuto?”, “per noia”. “Voglio che l’uomo sia libero nel bene e nel male”, si giustifica Dio per averlo creato e poi abbandonato a sé stesso. Si sfiora per un istante anche la visione feuerbachiana dell’uomo che crea dio (con la “d” minuscola) e non viceversa, ma il testo non si appesantisce, ma anzi l’ironia e la forte umanizzazione di Dio generano talvolta un riso amaro che alleggerisce le tematiche.
Quando Freud è quasi sicuro di trovarsi al cospetto di Dio e tutte le credenze che lo hanno accompagnato per una vita vacillano vistosamente, “non credo più nella psicanalisi, non in un mondo come questo”, il ritorno della figlia riporta il visitatore nei panni del barbone per un istante, per poi arrivare all’epilogo finale, incerto fino in fondo.
“Non ho né padre né madre né sesso né inconscio, non potete fare niente per me”
E’ interessante notare che, se il visitatore non è Dio, è un pazzo e Freud si sarebbe fatto abbindolare da uno dei suoi ex pazienti. Ma questa è l’ironia di Schmitt.
Bravo Haber, ci mostra bene la sua incertezza e soprattutto il desiderio, mai espresso apertamente ma visibile, che dopo la morte, ormai prossima, ci sia qualcosa di più dell’oblio dell’ateismo. Boni non sfigura per niente, anche se talvolta le sue risatine sembrano un po’ finte. Comunque oscilla splendidamente fra lo spiegare ed il nascondere, la sicurezza e anche l’umiltà di Dio, come nella scena in cui abbraccia le gambe dell’uomo Freud che in piedi enuncia tutti i suoi dubbi e si mette a nudo.