Chincaglieria varia e variopinta del Nome della rosa

Al Teatro Bellini di Napoli il lavoro di Stefano Massini, adattato e diretto da Leo Muscato, tratto dall'opera più famosa di Umberto Eco

Canticchia, la fanciulla di Adso, il motivetto in falsogregoriano arrangiato: “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”, andando verso il rogo, circondata dalle fiamme, anticipo e icona del rogo immane che brucerà di lì a poco l’abbazia. Qui al Teatro Bellini di Napoli di mette anche così in scena Il nome della rosa, il famosissimo romanzo di Umberto Eco nella riduzione teatrale che ne ha fatto Stefano Massini e che Leo Muscato ha adattato e diretto: scommessa, la loro, decisamente temeraria, di far (ri)vivere su un palcoscenico romanzo così particolare come quello di Eco, frutto, più che di ispirazione poetica, di scientifica e lucida precisione, manifesto dell’estetica postmoderna, opera multistrato dalle infinite letture, labirinto delle logiche fallaci ma verosimili. Canta, l’innominata fanciulla bella e terribile come un esercito schierato a battaglia – non sapete l’importanza dei nomi? – parole che sulla bocca bellissima ma ignara potrebbero (dovrebbero) suonar fuori posto, impropri nella loro espressione colta, a meno di una astrazione, di un salto nell’imprevedibile immaginifico e illogico, fuori dal seminato dello scontato; ti aspetti, infatti, da un momento all’altro, la piroetta che risolve, il capitombolo che sovverte il mondo reale e ammicca fuori, aspetti insomma, come Vladimiro ed Estragone, un qualche Godot che arrivi a risolvere, a fugare le nebbie del mondo naturalistico – come quelle che accompagnano Guglielmo ed Adso nel loro incerto percorso – che possa permetterti, come il saggio, di farti osservare finalmente la luna e non solo il dito che la indica. Speri invano, te ne rendi conto finalmente solo uscendo nella notte napoletana dall’incongruo tepore alla fine dello spettacolo, perché quel salto di qualità, quel sovvertimento del reale, quel trasmutarsi dal concreto all’astratto – che tu aspettavi come una promessa dovuta, un pegno da pagare, un diritto quasi acquisito – non c’è, manca all’appello, tutto rimane nell’alveo del racconto più o meno ben raccontato, della mostra più o meno ben mostrata di cose ed oggetti, della recita più o meno ben recitata di un testo. Perché, certo, è vero, Il nome della rosa è come un’anguilla che perennemente ti sfugge dalle mani, difficile – impossibile? – adeguatamente rappresentarlo, ti mancherà sempre qualcosa, un particolare che sembrava secondario ma senza il quale l’insieme diventa improvvisamente scialbo e piatto, un’ombra fugace che si muoveva rapida sullo sfondo, una luce nella notte, lo scalpiccio dei frati mentre s’avviano al mattutino, parvenze, sussurri, profumi che fanno, purtroppo, la differenza.

Così, la pur bella ed evocativa scena disegnata da Margherita Palli – una scatola teatrale dalle mille possibili mutazioni – che, nell’affastellarsi dei molteplici piani collegati da scale e scalette, ricostruisce e restituisce ai nostri sensi l’affanno e l’obliquo percorso dei personaggi, vorrebbe in qualche modo esser segno e simbolo della contorta eppur razionale architettura della formidabile abbazia e soprattutto del gran mastio che la sovrasta e la possiede, ossessione dello smisurato orgoglio dei monaci, la biblioteca: ci riesce solo in parte, mancando una delle chiavi principali di lettura dell’opera, se non la maggiore, l’irrazionale che si condensa in razionale, il caos a bella posta vestito d’una patina di logica per renderlo manducabile e comprensibile, l’illusione di Guglielmo di aver intravisto la raziocinante sequenzialità di una mente ordinatrice laddove, invece, c’era solo il caso: più che alle carceri di Piranesi, fantasiose ma pur sempre ancorate al reale, quelle scale e quelle torri avrebbero dovuto trovar piuttosto più chiaro e palese riferimento in Escher e al moto suo perpetuo che ossessivamente ritorna a ritrovar se stesso, nell’assillo tormentoso eppure terso e piano d’un’autoreferenzialità ansiosa e ansiogena. E così pure le proiezioni di Fabio Massimo Iaquone e Luca Attilii, pur lussureggianti di luce e colore, pur sconfinando spesso nell’onirica profezia di una visionarietà allucinata e barocca – così l’evocazione delle macchine del passato e del futuro, dal mondo d’Erone a quello di Leonardo (e perché non arrivare al contemporaneo?) oppure l’orrido ossario dei teschi che costruiscono pareti e colonne come in certe cripte in cui il raccapriccio confina col grottesco generando la sublimità del ridicolo – manca tuttavia di indicarci un altrove, un ulteriore livello di conoscenza, un’allusiva e definitiva nostalgia d’una diversa visione del mondo e delle cose, come in fondo è nel romanzo di Eco, dove tutto indica altro, in un perenne e inesausto rincorrersi di significati incasellati l’uno nell’altro, limitandosi ad precisare, in una esplicitazione che spesso è solo ridondanza, quanto già affermato nei dialoghi e nell’azione scenica, generando nella percezione finale, dopo l’iniziale meraviglia, un avvizzirsi del significato degli oggetti e della loro rappresentazione, oscuramente avvertendo il rompersi dei rapporti di quelli tra loro e di quelli con me seduto in platea, scollamento progressivo e sconcertante quanto inevitabile e implacabile.

D’altra parte, pure il linguaggio utilizzato, che in tante parti riprende i dialoghi originali del romanzo, risulta, fin dall’inizio, inadeguato all’orecchio nostro, e malato d’affettata innaturalità, facendoci rammentare, ad ogni particolareggiato ragionamento di Guglielmo, di quanto possa esser diverso il teatro e le sue regole dalla parola scritta, e di come quanto avevamo più volte letto, sembrandoci perfetto ed elegante, risulti invece adesso, dalle tavole del palcoscenico, caricato e inadatto, suscitando in noi un moto di repulsione direttamente proporzionale al godimento intellettuale che ne avevamo tratto in precedenza. E così i personaggi, che spesso, senza peccato dell’attore che l’impersona, si ritrovano abbassati al rango di macchiette oppure ridotti al livello di puri oggetti di scena, messi lì in funzione della risata che dovranno suscitare o del pizzico d’erotismo che la scena di nudo porta sempre con sé. Chincaglieria varia e variopinta che provvede a far ben presto appiattire la vicenda sulla nota parvenza di trama poliziesca, il livello più epidermico e tranquillo delle molte sfoglie della rosa, coi morti ammazzati che salgono verso il cielo per ricomparire nell’artigianale e improvvisata morgue di Severino, come del resto déjàvu nel famoso film di Annaud del 1986 che Muscato proclamava voler far dimenticare, assassinando invece la pur promessa ironia – oh, come diversa cosa dalla risata! – che si nasconde, dovrebbe nascondersi, dietro il nome delle cose (“Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus” non è un motivetto cantabile!), dietro l’etichetta nominalista che con le nostre umane manie e gelosie tendiamo ad affibbiare al creato: ironia che, dietro il velame della citazione del già esistito, produce l’unico possibile effetto salvifico perché consapevole dell’innocenza ormai perduta per sempre, l’unico lasciapassare per l’alterità che si cela dietro la realtà. Senza questa, la realtà, come diceva il Dino di Moravia, “mi ha sempre fatto l’effetto sconcertante che fa una coperta troppo corta, ad un dormiente, in una notte d’inverno: la tira sui piedi e ha freddo al petto, la tira sul petto e ha freddo ai piedi; e così non riesce mai a prender sonno veramente”.

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Attori
Drammaturgia
Allestimento scenotecnico
Pubblico
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chincaglieria-varia-e-variopinta-del-nome-della-rosaIL NOME DELLA ROSA <br>di Umberto Eco <br> <br>versione teatrale di Stefano Massini <br>regia e adattamento Leo Muscato <br> con (in o.a.) Eugenio Allegri, Giovanni Anzaldo, Giulio Baraldi, Luigi Diberti, Marco Gobetti, Luca Lazzareschi, Bob Marchese, Daniele Marmi, Mauro Parrinello, Alfonso Postiglione, Arianna Primavera, Franco Ravera, Marco Zannoni <br> <br>scene Margherita Palli <br>costumi Silvia Aymonino <br>luci Alessandro Verazzi <br>musiche Daniele D’Angelo <br>video Fabio Massimo Iaquone, Luca Attilii <br> <br>assistente alla regia Alessandra De Angelis <br>assistente scenografa Francesca Greco <br>assistente costumista Virginia Gentili <br> <br>Teatro Stabile di Torino - Teatro Nazionale / Teatro Stabile di Genova / Teatro Stabile del Veneto - Teatro Nazionale in accordo con Gianluca Ramazzotti per Artù e con Alessandro Longobardi per Viola Produzioni <br>Con il sostegno di FIDEURAM <br> <br>lingua italiano <br>durata 2 ore e mezza <br>in scena dal 21 al 26 novembre <br>Teatro Bellini di Napoli, 21 novembre 2017