
Difficile riassumere in poche righe il colossale e composito lavoro di Bellini/Sinisi, andato in scena al Teatro Fontana di Milano per quasi tutto lo scorso novembre. Černobyl è uno spettacolo articolato e sfaccettato, capace di solleticare il pubblico in sala con invenzioni tanto stupefacenti quanto improvvise.
Basterebbe un battito di ciglia per perdersi la transizione scenica che trasforma la spoglia ambientazione dell’inizio nel freddo covo in cui prenderà forma la narrazione: i teli neri che scolpivano la stanza cadono rivelando, dietro di loro, quello che sembra l’interno di un reattore nucleare. L’immagine è suggestiva: file di atomi giustapposti e sovrapposti in semicerchio rappresentano gli unici testimoni dell’istruttoria che verrà allestita. All’accusa, il Partito, con la “P”maiuscola. Alla difesa, Viktor Brjuchanov, trentasei anni, responsabile della centrale nucleare di Černóbyl all’altezza cronologica di quel lontano eppure indelebile aprile 1986. L’obiettivo dell’accusa è chiaro: insabbiare tutti gli scomodi e spinosi dettagli sull’accaduto. Brjuchanov sarà il capro espiatorio: un Malaussène ante litteram.
Nel tempo espanso della pièce, il disastro accadde, sta accadendo ed è già accaduto.

È una presenza incombente, beckettiana, a cui tutti fanno riferimento, eppure che tarda ad arrivare. Emerge soprattutto attraverso le testimonianze di identità e punti di vista diversi: da medici, fisici, soldati e civili. In un asfissiante clima autocratico, però, testimoniare diventa un’azione politica, una dimostrazione di opposizione ideologica al monopensiero del partito. Viene dunque messo alla berlina un sistema politico in cui far tacere la verità significa sradicare sul nascere ogni tendenza eversiva.
La drammaturgia di Bellini ha idee interessanti e intriganti, schiacciate ahimé dalla fitta mole di informazioni storiche e tecniche in cui il pubblico finisce per perdersi. Di specchio la regia di Sinisi, non certo parca in quanto a soluzioni audaci, inonda gli spettatori con continui coup de théâtre. Le radiazioni nucleari vengono concretizzate in scena attraverso raggi laser che colpiscono indistintamente palco, platea e soffitto. Dalle tenebre della platea emerge il fisico sovietico Sacharov che, col volto incrostato dal cemento, propone dissertazioni di scienza nucleare e pillole di semantica. Ancora dopo, un siparietto in ferro isola il proscenio e ci catapulta in uno spettacolo di varietà: seguono cinque minuti di brano trap sul patriottismo comunista.
Il pubblico viene sovrastimolato, bombardato da una mole di provocazioni, linguaggi e stili continuamente diversi. Ne viene fuori uno spettacolo barocco dove nulla manca e, anzi, forse c’è troppo. L’ansia dell’horror vacui lascia incerti su come riunire il puzzle esistenziale scomposto di fronte ai nostri occhi.
La questione che sembra però annidarsi tra le maglie dell’azione è assolutamente amara e emblematica: esiste una soluzione al dolore, alla sopraffazione? A concludere lo spettacolo è una figura femminile – presenza incombente che vaga per il palco sin dall’inizio. Lei è «la madre di tutte le madri», la Grande Madre Russia che ha partorito l’URSS ma anche un’allegoria dell’umanità intera. Sdraiata a terra, si addossa in un triste e rassegnato monologo le colpe di tutto ciò che è successo e, nel frattempo, partorisce un figlio che gli altri si affrettano a inondare di benzina: sarebbe stato meglio che quella creatura non fosse nata affatto.