
[rating=4] Ultimo capitolo della trilogia di Mamet, l’American Buffalo di Marco d’Amore è un trionfo d’adattamento, la vicenda di un vecchio rigattiere che cerca di riprendersi il suo rarissimo mezzo dollaro con la testa di bufalo, ingenuamente venduto ad un collezionista, viene così innestata in una Napoli da sobborghi, dove la bellissima scenografia di Carmine Guarino la fa da padrone, stregando gli occhi del pubblico.
Un lavoro fatto ad arte, calibrato, accattivante, dove D’Amore veste i panni che furono di Hoffman, mitico Teach, che nelle versione prodotta dall’Eliseo diventa “o professor”, inventando un personaggio balbuziente, alcolizzato e individualista che non esita a mettere in cattiva luce il giovane Roberto (Vincenzo Nemolato, classe ’89 e già una faccia che non si dimentica), ex tossico sulla via della redenzione che sarà il capro espiatorio di un escalation di spregiudicatezza, equivoci e interessi violati. Fantastico infine il Don-Donato di Tonino Taiuti, vera chiave di lettura di questa splendida operazione d’adattamento di Maurizio De Giovanni, il rigattiere che “schifa” le canzonette napoletane e vuole in tutto e per tutto essere americano, dagli abiti alla parlata, meravigliosamente zeppa di anglicismi rimestati in salsa partenopea, è lui il vero fulcro di questa grottesca epopea di miserie umane, dove a volersi vestire dei panni d’altri ci si rimette sempre.
Una gara di talenti insomma, un gioco di parti alla “tu vo fa l’americà”, immancabile colonna sonora, che spiazza e incanta lo spettatore, nonostante le quasi due ore di interno praticamente fisso. È la parola che ipnotizza, si parla solo di quella maledetta moneta che neppure si vede, eppure il discorso è altro, è lì fuori o lì dentro, in quelle anime sole destinate al fallimento. Applausi veri.