A tu per tu con Marinella Manicardi, attrice e autrice de “La Maria dei dadi da brodo”

Marinella Manicardi si racconta in un'intervista in equilibrio tra teatro, lavoro e Bologna

Dopo aver visto lo spettacolo “La Maria dei dadi da brodo” (leggi la recensione) al teatro delle Moline, in scena fino al 10 febbraio, viene molta curiosità di documentarsi sui tanti episodi raccontati e anche di conoscere la protagonista, Marinella Manicardi. Originaria di Carpi, con molti spettacoli all’attivo e anni di teatro alle spalle, ha curato la regia e la scrittura del testo teatrale insieme a Federica Iocobelli e insieme ne hanno poi creato il libro, dall’omonimo titolo, che è stato presentato in questi giorni alla libreria “Ambasciatori” di Bologna. E in quell’occasione è intervenuto anche un manager appartenente alla Packaging Valley che, fra le altre cose, ci ha raccontato un altro aneddoto: in passato i contratti si facevano a parole, in dialetto, fra bolognesi ci si fidava non c’era bisogno di formule per iscritto. Questa è proprio la coesione e l’unità dei bolognesi che si respira nello spettacolo.
Ringraziando ancora una volta Marinella per la sua disponibilità, cominciamo a conoscerla meglio:

Le rievocazioni storiche non sono una cosa nuova per lei: aveva già fatto quella della magliaia di Carpi nello spettacolo “Luana Prontomoda”. Perché è così interessata al lavoro nei tempi passati?

Sono interessata al lavoro, all’invenzione di un lavoro, alla passione per il proprio lavoro, alla tenacia e all’intelligenza che occorre per continuare a migliorarlo e anche a farlo apprezzare agli altri, il proprio lavoro. Non mi piace chi si lamenta e basta. Non mi piace che il lavoro sia raccontato solo come condanna, sfruttamento, morte, alienazione si diceva fino a qualche anno fa. Da un certo momento in poi diciamo dagli anni ’80 in Italia lavorare è diventato quasi sinonimo di condanna, di obbligo forzato, tutti aspettavano solo la vacanza, il week-end per fuggire dal lavoro. Io in vacanza dopo due o tre giorni mi annoio. Forse perché figlia di artigiani ho sempre pensato che il lavoro desse dignità. Soprattutto alle donne: se vivi del tuo lavoro potrai dire ciò che pensi senza timore, se non hai un lavoro la tua vita dipende da altri. Non è vero che racconto solo il lavoro del passato, la Packaging Valley, l’industria delle macchine confezionatrici costituisce ancora oggi la base economica di Bologna. Sono affascinata dal linguaggio tecnico,  specialistico, dal tipo di problemi che deve affrontare un tecnico progettista di queste macchine, o di un fisico nucleare che lavora al CERN di Ginevra, ma anche di un cuoco che inventa una nuova ricetta.

Nel precedente lavoro teatrale su Morandi era insieme ad altre due attrici, qui invece fa un monologo. Come mai ha optato per questa forma teatrale?

In realtà è un monologo in coppia con Daniele Furlati, compositore e musicista, una presenza parallela e in continuo dialogo con me. La scelta di quanti attori si mettono in scena dipende dal progetto drammaturgico e dalle possibilità produttive. In questo caso era necessario che una sola voce raccontasse le molte voci della città. Suddividere il testo tra molti attori avrebbe solo creato confusione. Uno spreco inutile. Il musicista e il suo pianoforte sono il solo co-protagonista necessario.

Maria Corazza: quanto c’è di vero e di inventato nella sua reinterpretazione di questa figura leggendaria?

Di vero c’è il racconto della invenzione della macchina per impacchettare il glutammato: si può vedere in un video al Museo del Patrimonio industriale di Bologna: Maria Corazza dice, più o meno, le stesse parole che mi gioco in scena. Poi abbiamo inventato l’incontro tra lei e il marito Natalino, immaginandolo alla Sala Sirenella, una sala da ballo molto famosa negli anni ’40. Solo dopo il debutto abbiamo scoperto che si erano davvero incontrati lì. Nel libro racconto anche il mio primo incontro con Maria e l’ultimo, in teatro l’anno scorso lei in platea e io in scena, stesso personaggio!

Di solito vediamo un libro che poi viene portato sulla scena sottoforma di spettacolo teatrale: qui invece assistiamo esattamente al contrario…

Sì il libro contiene racconti nati dagli stessi materiali raccolti per lo spettacolo. Ma il copione teatrale è molto più concentrato. Nel libro troviamo i personaggi, i rumori, gli odori, i paesaggi della città ma anche io e Federica Iacobelli che ci aggiriamo nella Bologna di ieri e di oggi. E’ come se avendo gustato uno squisito piatto di pasta i cuochi ci accompagnassero in cucina per mostrarci tutto il procedimento, ma anche gli ingredienti, ma anche qualche scena scartata.

Nella presentazione del suo libro abbiamo conosciuto anche Federica Iacobelli, la co-scrittrice del libro “La Maria dei dadi da brodo”. Com’è Bologna dagli occhi di Federica, di origini napoletane?

Questo lo potete leggere nel libro, è Federica stessa che lo racconta. A me interessava il suo sguardo “di fuori” come il mio che non sono bolognese anche se arrivo sempre dalla Pianura Piatta. L’estraneo nota cose che chi abita in un luogo non vede più.

Nel testo si rimarca varie volte che per ottenere un’idea vincente serve la “manualità” dell’uomo/marito ispirata dall’idea della donna/moglie, quindi la coppia è vista come generatrice di idee e, alla fine, di impresa. Era vero in passato, ma oggi?

Le coppie possono essere tante non necessariamente uomo/donna. La storia della Maria è questa, ma in realtà a noi interessava raccontare la storia di chi si mette insieme all’amico, alla cugina, al socio insomma il fare comunità. Da qui nasce la città ma anche la democrazia. Oggi ci sono famiglie e comunità più larghe, meno “familiari” ma il fare gruppo, impresa è sempre mettere insieme più persone più competenze. Un’altra cosa che mi annoia è l’individualismo arrogante e solo competitivo. Costruisce poco, molto più facilmente distrugge.

Nel finale, l’azienda dove lavorava il marito della protagonista è stata acquistata “dagli americani”, visti un po’ come “invasori”. Come vede il futuro della Packaging Valley?

Ho provato a chiederlo a chi lavora o dirige le fabbriche, i laboratori, i gruppi di imprese: tutti sono molto prudenti, tutti sono molto consapevoli che se non si investe in innovazione il distretto della Packaging Valley potrebbe avere molte difficoltà, non siamo certo noi artisti a poter dare soluzioni. Compito degli artisti è quello di raccontare storie che servano a vedere con occhi più grandi. Noi abbiamo raccontato la storia di una città ricchissima perché lavorava la seta poi divenuta povera quando altri la producevano meglio e ritornata di nuovo ricca e organizzata quando università, scuola e mondo del lavoro hanno trasformato la meccanica artigianale dei telai da seta in meccanica e elettronica delle macchine impacchettatrici più vendute nel mondo. Come dire: coraggio possiamo farcela, siamo già stati bravi, possiamo esserlo ancora.

Con lo spettacolo al teatro delle Moline, lei gioca in casa. Lo spettacolo verrà promosso anche nei teatri fuori Bologna?

La prossima stagione. Anche perché se un teatro mi raccontasse la storia economica di Bari o di Verona, fuori dagli stereotipi e con uno sguardo intelligente io andrei a vederlo. Lei no?
Bologna è una città con un’immagine molto forte, sono sicura che spettatori di altre città saranno interessati a conoscerla al di là degli stereotipi di città gaudente e golosa. Anche gli spettatori bolognesi sono sorpresi dalla loro storia.

Quali sono le tematiche che le piacerebbe affrontare nel suo prossimo spettacolo teatrale?

Il denaro, la fisica nucleare, il significato di patria, tutti temi forti. Ma forse anche una commedia con musica e danza. Mai dimenticare la piacevolezza della vita! Anche il lavoro può essere visto come composizione musicale, come una danza, non crede?

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