Samson et Dalila al San Carlo, un passo avanti

Al teatro san Carlo torna, dopo vent'anni, Samson et Dalila di Camille Saint-Saëns diretto da Dan Ettinger

Ci sono molti motivi di interesse e curiosità, intorno a questo Samson et Dalila che si mette in scena, qui al Teatro San Carlo di Napoli, dal 29 settembre al 9 ottobre, primo fra tutte l’opera stessa, che non rientra certo tra quelle più rappresentate, anche qui in città, dove manca da vent’anni. Terza opera di Camille Saint-Saëns e tra le poche che ancora si usa metter in scena – il musicista è ricordato soprattutto per composizioni per orchestra – ebbe tormentatissima gestazione: dieci lunghi anni, tra il 1867 e il 1876, ne segnarono il lungo percorso, tra ripensamenti e interruzioni, fino a quel 1876 in cui l’opera vide finalmente la luce, non in Francia ma a Weimar, perché, come ci informa lo stesso musicista “tutti credevano che dovessi essere pazzo per tentare un soggetto biblico. Diedi un’audizione del secondo atto a casa mia, ma nessuno lo capì del tutto. Senza l’aiuto di Liszt, che non ne conosceva neppure una nota, ma che mi incaricò di finirlo e di allestirlo a Weimar, Samson non avrebbe mai visto la luce”.

Arrivò finalmente a Parigi solo nel 1892, suscitando l’entusiasmo del pubblico e di raffinati musicisti come Paul Dukas che scriveva come “la partitura del Samson è, senza dubbio, quello che possediamo di più perfetto fino ad oggi nell’opera francese”. Da allora di tempo ne è passato e, certo, i gusti del fin de siècle ci appaiono francamente datati e perfino un po’ ridicoli, tuttavia la grandeur un po’ pompier che la caratterizza, sospesa tra l’esotismo alla Moreau e il colossal alla De Mille, ancora non manca di riservar sorprese pure per noi che abitiamo il secolo nostro: complice, probabilmente, la stessa eterogeneità dell’ispirazione, evidente quando si osservino un po’ più da vicino i tre atti che compongono l’opera.

Se il primo atto risente fortemente dell’impostazione originaria che propendeva verso l’oratorio, a metà strada tra Händel e il Rossini del Mosé, il secondo atto è sicuramente di derivazione wagneriana – come non ricordare il cromatismo nella linea di canto del mezzosoprano del celeberrimo Mon cœur s’œuvre à ta voix – pur se non condivide la concezione del genio tedesco della dissoluzione delle forme chiuse, facendo convivere insieme tecniche avantgarde come il Leitmotiv con salottiere mélodie; nel terzo atto la confusione è ancor più grande tra grandiose solennità e architetture e colore esotico delle danze del celebre – e vilipeso – baccanale. Ma in questo estremo disorientamento del gusto, per noi contemporanei francamente kitsch, risiede probabilmente, pure, il segreto della longevità dell’opera, per cui ci ritroviamo a parlarne ancora oggi.

Il secondo motivo d’interesse è sicuramente legato alla presenza sul podio di Dan Ettinger, dal prossimo gennaio nuovo Direttore musicale del Teatro San Carlo: israeliano, cinquantunenne, già assistente di Daniel Barenboim, è attualmente direttore principale della Stuttgart Philharmonic Orchestra. La sua direzione del lussureggiante mondo del Samson è sembrata tutto sommato misurata, al tempo stesso leggera e lirica, in accordo con l’ambiguità stessa della partitura, perennemente indecisa tra preghiera e clamore enfatico; sembra, alla resa dei conti, la seconda modalità più consona al Maestro, donando al volume del suono dell’Orchestra un’intensa corposità, che ben s’attaglia al rigoglioso fiore della musica di Saint-Saëns, tuttavia tale da risultare, il risultato finale, meno attento al respiro e all’emozione che, pure, ci sono – eccome! – in partitura. Il problema, poi, sono i tempi, troppo veloci in alcuni punti, troppo lenti in altri, e in generale poco preoccupati di raccordarsi alle voci dei cantanti e del Coro, forse eccessivamente tesi a certe clamorose esplosioni a piena orchestra che lasciano una punta di sconcerto in chi siede, assorto, in platea.

L’esordio sancarliano di Anita Rachvelishvili, ulteriore motivo di interesse per questa produzione, è, forse, leggermente inferiore alle altissime aspettative, pur incarnando una Dalila dalla voce incredibilmente profonda dalle mille sfumature: stile, musicalità, timbro colorato anche nei pianissimi, confermandosi di certo interprete principe nel ruolo. Avevo ascoltato e recensito il mezzosoprano georgiano nella Carmen di Bieto alla Wiener in streaming durante il lockdown e anche in quelle condizioni era impossibile non notare come la sua voce meravigliosa divampasse letteralmente in alto e in basso e come “l’amour” e “la mort” cantate da lei siano letteralmente da brivido: dal vivo non posso che confermare, pur se leggermente attenuata, soprattutto sui toni alti, quell’enorme impressione.

Anche per Brian Jagde si è trattato di un esordio, non al San Carlo, ma nel ruolo di Samson, che riveste in modo perfetto grazie alla sua voce stentorea e robusta, vibrante, anche se non eccelle in sfumature e mezze tinte. Certo anche il physique du rôle è d’aiuto, ma è soprattutto la voce, a colpire, fatta apposta per un personaggio eternamente in bilico tra il Siegried wagneriano e l’Otello verdiano per accento e declamato e che possiede, insieme e in pienezza, la solennità morale del capo religioso e l’irruenza fisica del guerriero, dall’inizio alla fine: in questo, sia per la prestanza fisica, sia – soprattutto – per le caratteristiche vocali, il tenore americano è perfettamente omogeneo alla grande linea dei tenori che nel tempo hanno interpretato il ruolo, un nome per tutti Mario del Monaco, che per due volte lo portò qui al San Carlo. Quasi un tenore d’altri tempi, dunque, che comunque convince con un’interpretazione tra lo ieratico e l’amoureux tutto d’un pezzo, che tradisce l’amor di Dio per l’amor di donna. E già questo tanto ci dice sulla lubrica “attualità” dell’opera.

Accanto ai protagonisti, Ernesto Petti è eccezionale nel ruolo del Gran Sacerdote: in un’opera come questa manca un vero antagonista, inutile cercare un Conte di Luna oppure anche solo un père Germont che si opponga all’amore degli amanti di turno. Talvolta, però, come in questo caso, l’interprete riesce a dare spessore al personaggio, in perfetta sintonia con il pubblico che perfettamente comprende certi segreti movimenti, moti dell’animo non perfettamente descrivibili. Così è pure per Roberto Scandiuzzi che riesce a dare anima e voce giusta al Vecchio ebreo, personaggio secondario che assurge in tal modo a statura di fuoriclasse. Il Coro, poi, diretto con l’abituale maestria da Josè Luis Basso mi è sembrato perfetto: soprattutto nel primo atto il coro è protagonista assoluto, in accordo all’origine oratoriale della partitura, in quest’occasione lo è stato in pieno e sul serio, sia sotto il profilo musicale sia sotto quello drammaturgico, mai una nota fuori posto, mai l’impressione di “ciondolare” sulla scena, che purtroppo, più d’una volta, vediamo con ansia verificarsi sui palcoscenici lirici. Merito senz’altro di una compagine che visibilmente cresce nel tempo, come pure della regia.

E veniamo così a parlarne, di questa regia di Damián Szifrón che lo mise in scena nel 2019 allo Staatsoper Unter den Linden di Berlino, auspice Daniel Barenboim che aveva seguito la carriera cinematografica di questo regista argentino, fino alla nomination all’Oscar, nel 2015, con Storie pazzesche. Non nuovo a queste operazioni spesso provvidenziali – non si può non ricordare la famosa prima della Scala del 2009 in cui chiamò alla regia Emma Dante e la stessa Anita Rachvelishvili, entrambe “debuttanti” – Barenboim sovente azzarda e non sempre le ciambelle riescono col buco: in questo caso la regia di Szifrón, ripresa per l’occasione da Romain Gilbert, ricrea sul vetusto palcoscenico del San Carlo qualcosa che molto somiglia al cinema, piuttosto che all’illustre arte teatrale. Perché, come diceva il nostro Eduardo nell’Arte della commedia per voce d’Oreste Campese capocomico, vere strade e piazze appartengono al cinematografo, agli spettatori del teatro può, deve bastare la parola del poeta, scene e fondali sono menzogna dichiarata, perché a teatro la suprema verità è stata e sarà sempre la suprema menzogna: e qui tutto invece è pienamente esplicito, ricostruisce la mano del regista, aiutato dalle scene di Etienne Pluss e i costumi di Gesine Völlm, una Palestina di roccia e sabbia con le casette adunate come in un presepe, cieli azzurri e cangianti, la Palestina della nostra ingenua e infantile immaginazione, nutrita d’illustrazioni di vecchi sussidiari e del cinema – appunto – dei vecchi colossal che non passano ormai più nemmeno sulle televisioni, fin troppo banale il ricordo del Sansone e Dalila di Cecil B. De Mille, Victor Mature e Hedy Lamarr, la vivida sgargianza satura del Technicolor.

Si obietterà che è la stessa opera, così fortemente caratterizzata, ad impedire qualsiasi alternativa soluzione che conservi un minimo di credibilità, il Grand-Opéra non prevede intimismi e introspezioni, divide con l’accetta buoni da una parte cattivi dall’altra: se questo è sicuramente vero, un minimo di comprensione delle ragioni degli uni e degli altri non avrebbe, alla fine, guastato, magari contribuendo a rendere un po’ più interessante il pastone storico-biblico, l’impressione è che il regista non si ponga invece alcuna domanda, limitandosi ad illustrare pedantemente – con un surplus di kitsch perfino superiore alla materia – quanto descritto da musica e libretto e alla fine sembra di assistere a qualcosa che potrebbe risalire tranquillamente a cinquant’anni fa o più, tutto cartapesta e poca sostanza.

E dove si azzarda a mettere in scena qualche idea, il risultato è quasi sempre scoraggiante, soprattutto per la modalità con cui si attua e prende forma: così, se il funerale angosciato del bimbo morto, vittima dell’occupazione straniera, non disturba più di tanto, risultano del tutto stranianti, per esempio, i mimi – trovata ormai un po’ stinta – avatar dei protagonisti che nel clone della scena d’amore del primo atto corrono ben più avanti della realtà arrivando fino a mettere al mondo figli: se voleva essere una proiezione del desiderio di Samson, è riuscita piuttosto goffa, se ambiva a qualcos’altro non so, non s’è capita, in bilico tra lo spot pubblicitario che ripercorre l’intera vita di una persona in un minuto oppure i due cuori e una capanna amore e buoni sentimenti da Mulino Bianco.

C’è anche un altro elemento da tenere in considerazione: quest’opera appartiene a quella categoria di rappresentazioni in cui sostanzialmente non succede niente, dal punto di vista drammaturgico: da questo punto di vista risente fortemente dell’impianto oratoriale di cui si è detto, comprendo come sia molto facile, più tranquillizzante, spostare l’accento, più che sui drammi interiori dei personaggi, che pure ci sono e che occorrerebbe enfatizzare, sul facile esotismo della natura mediorientale e sulla perversità dei costumi. Ma credo sarebbero da evitare certe ingenuità: in tema con il soggetto biblico, abbiamo spesso desiderato l’intervento di Giosuè che fermasse finalmente il sole proiettato sul fondale, che abbiamo ansiosamente osservato erratico senza posa nel firmamento, oppure, trasformandosi improvvisamente in luna durante il canto alla primavera del Printemps qui commence, cominciare a gettar lampi inquietanti tanto da far temere in un guasto improvviso dell’impianto elettrico.

Oppure le luci, di Olaf Freese riprese da Valerio Tiberi, che accentuano senz’altro l’effetto cinéma, con tanto di colori saturi o gran finale in fermo immagine in b&w. E perfino il tanto vituperato baccanale finale, che si trasforma, chissà perché, da trionfo dell’erotismo sfrenato qual è in gratuito bagno di sangue corredato di sgozzamenti e lanci di cadaveri, con espliciti riferimenti alle esecuzioni in perfetto stile jihadista, non riesce ad uscire dal cliché del Grand Guignol, tra sangue e seni nudi, con successiva, breve scena del “muoia Sansone con tutti i Filistei” che ambirebbe, come da libretto, ad esser sublime, smemore che du sublime au ridicule il n’y a qu’un pas.

PANORAMICA RECENSIONE
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samson-et-dalila-al-san-carlo-un-passo-avantiSamson et Dalila <br>di Camille Saint-Saëns <br> <br>Direttore, Dan Ettinger <br>Regia, Damián Szifròn <br>Scene, Etienne Pluss <br>Costumi, Gesine Völlm <br>Luci, Valerio Tiberi <br> <br>Dalila, Anita Rachvelishvili <br>Samson, Brian Jagde <br>Il sommo sacerdote di Dagone, Ernesto Petti <br>Abimelech, Gabriele Sagona <br>Un vecchio ebreo, Roberto Scandiuzzi <br>Un messaggero, Li Danyang <br>Due filistei, Mario Thomas, Sergio Valentino <br> <br>Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo <br>Maestro del Coro, José Luis Basso <br> <br>Produzione Staatsoper Unter den Linden Berlin <br>In scena dal 29 settembre 2022 al 9 ottobre 2022 <br>Opera in francese con sovratitoli in Italiano e Inglese <br>Durata: 2 ore e 30 minuti circa, con intervallo <br>Napoli, Teatro di San Carlo, domenica 2 ottobre 2022