La damnation del Faust di Hector Berlioz al Teatro dell’Opera di Roma

Fino al 23 dicembre a Roma per la regia di Damiano Michieletto.

Un’aula di psicologia e tra i banchi il coro diretto da Roberto Gabbiani, tutti in bianco già medici attenti a un caso di studio. Il nostro Faust su un lettino di ospedale vede la morte dell’innocenza in un inconfondibile bara banca. I contadini sulle note” Lasciano i pastori gli armenti e i greggi, ora si fanno belli per la festa;…” come da sopratitoli su un testo in francese ma reso intellegibile in italiano ovvero in inglese, sono figuranti con maschere laddove solo si distingue Margherita, nel sogno del nostro protagonista, posto ad oggetto di studio nella regia molto simbolica ed evocativa di Damiano Michieletto, decisamente attento ad un’analisi per immagini del testo drammaturgico dell’autore il cui spunto è da Johann Wolfgang Goethe tradotto in francese da Gérard de Nerval.

L’opera apre la stagione lirica romana, mancava da sessant’anni sul palcoscenico della Capitale e con scelta coraggiosa, il sovraintendente Carlo Fuortes, porta in scena una coproduzione con il Teatro Regio di Torino e il Palau de Les Arts Reina Sofia di Valencia. In un tutto bianco ospedalizio, appunto con immagini e titoli per scene, distanti dal tracciato che ne scorre per titoli sopra, descrive il sogno del tenore Pavel Černoch come malattia da curare e la chiave di uscita dalla tentazione sarà il mood dello spettacolo. Con essa sempre in vista su un lettino il nostro protagonista verrà trasportato  in terapia e il suo caso sarà oggetto di attenzione della platea degli studenti, coristi che dall’alto attendono al caso in analisi.

Mephistophele, il basso Alex Esposito, in questa rappresentazione, più attore, ballerino, funambolo, archetipo di bellezza, una sorta di Piero Pelù o Pau dei Negrita, che cantante è bravissimo a realizzare quanto architettato dal regista. La tenerezza tra Margherita e Faust è un asta dì equilibrio dove gli echi infantili appena si toccano creano la dannazione e la tentazione o piacere, come lo schermo a centro scena proietta e scrive, è la mela messa in bocca, in un palcoscenico che si fa paradiso terrestre, con tanto di insegna luminosa, ai nostri protagonisti dal demone citato. E il morso creerà la colpa o peccato e la conseguente esplosione della bella scena, molto iconografica, ma distante da quanto si legge nei titoli.

E ci ritroviamo in carcere, dove Margherita, il mezzosoprano Veronica Simeoni, la vera voce e artista di questa edizione, sarà la  vittima. La regia la colloca su un altalena in balia di Mefistofele, tra due seggiolini vuoti echi di passione e tentazione. Se il bacio è l’onta della condanna,  l’attesa perché colei possa rivedere il suo desiderato, scrive  “Alla finestra m’affaccio, mi sporgo,… per veder s’egli appare, se lo scorgo, sperando di affrettare il suo ritorno.” ma in scena è di nuovo il lettino d’ospedale e lì che ella ha in mano una felpa di Faust e ne cerca l’odore, un sorta di feticismo che crea addirittura un bacio omosex tra questi e il demone sulle sue gambe in guisa di passione incontenibile.

In rosso la nostra ragazza, il sogno agognato, sarà protagonista di un’espiazione scontata con bicchieri d’acqua versati dalla sua stessa mano sul suo capo: una doccia cui tocca sottoporsi se sei cantante lirica perché altro eco intorno a se si crei, cui solo la preghiera bellissima di un coro di bambini potrà dare redenzione. E’ dura la ricerca della chiave che apre la porta del perdono, ma l’onta del peccato resterà e crea un tutto nero pece fatto di cellofane, di lattice, che tutto ricopre e fa schizzi discutibili in tutti i tre cantanti che sono parte della rappresentazione e in tutto il bianco della scena. Bella la musica diretta da un più che valido Daniele Gatti e i costumi ben contestualizzati nei disegni di Carla Teti. E l’applauso tra lo stupore dei melomani e dei novizi, dopo oltre due ore di opera senza pausa, va a uno spettacolo diverso da quello atteso. Una vera acrobazia melodrammatica.