
«Ieri sera dunque sono stato a vedere la “Tosca” di Puccini». Così comincia un famoso brano – in realtà parte di una lettera che l’autore scrisse alla moglie Alma – in cui Gustav Mahler esprime un giudizio per nulla lusinghiero sull’opera, lamentandosi di un primo atto con «solenne processione con un continuo scampanio (le campane si sono dovute far venire dall’Italia)», di un secondo atto in cui «un tale viene torturato tra urli orrendi e un altro pugnalato con un acuminato coltello», di un terzo in cui c’è «di nuovo immenso scampanio su una veduta di tutta Roma dall’alto di una cittadella e un tale viene fucilato da un plotone di soldati».
In verità, conclude il grande direttore d’orchestra, «prima della fucilazione mi sono alzato e sono andato via», pur ammettendo che – «il tutto è messo insieme come sempre con abilità da maestro», ma che «al giorno d’oggi ogni scalzacane sa orchestrare in modo eccellente» e che in ogni caso si trattava di una «esecuzione ottima sotto ogni punto di vista, si resta veramente strabiliati di trovare qualche cosa di simile in una città austriaca di provincia» (anche se in effetti Mahler era a Leopoli, in Ucraina, allora parte dell’Impero Asburgico).
Chissà cosa avrebbe commentato Mahler se per caso fosse passato ieri sera per Napoli, al Teatro San Carlo, e avesse assistito alla rappresentazione di questa Tosca che per il San Carlo Opera Festival si mette in scena in questi giorni: certo, pur con tutta l’alterigia tedesca non avrebbe potuto far a meno d’ammettere, come allora, la gran capacità d’orchestrazione di Puccini (all’epoca erano loro due i più grandi in quest’arte, e dunque il giudizio, proprio per questo, pesa ancor più e sa un tantino di gelosa stizza); probabilmente, poi, si rimangerebbe certe valutazioni della prima ora (Mahler scrive nel 1903, tre anni dopo la prima trionfale al Costanzi) circa il presunto sfrenato verismo della vicenda e della partitura, che avrebbe sfiorato il grand-guignol e di cui la morte di tutti e tre i protagonisti sarebbe stato segno inequivocabile, considerazioni ampiamente superate dalla critica moderna; ma sicuramente dovrebbe registrare, come allora, l’eccellenza dell’esecuzione.
Di questa Tosca, infatti, Juraj Valčuha è protagonista assoluto, con la sua sicurezza, la sua sensibilità, la sua cultura, ma soprattutto con l’incredibile capacità di saperci far sembrare inaudito ciò che ormai pensavamo da tempo risaputo ed acquisito, archiviato per sempre nelle nebbie dell’impertubabilità anaffettiva, vantando in giro stoltamente la nostra beata e sciocca ignoranza, regalandoci, ed è grand dono, la possibilità, invece, di una emozione nuova per una musica che pensavamo ormai non più capace di generar granché, a volte fino alla lacrima, come capitato ieri sera.
Così, l’espressionismo musicale spinto della partitura, la sua frammentarietà da noi troppo frettolosamente catalogata come didascalica, nella quasi ossessiva e a volte meccanica (così ci era sembrato) applicazione della tecnica del leitmotiv wagneriano, portato fino alle estreme conseguenze, tanto che perfino Angelotti e il Sagrestano ne hanno uno, (ri)trovano invece il loro pieno e positivo significato nella direzione di Valčuha, in uno con la capacità di cogliere appieno la ricchezza intensa d’infinite sfumature della così perfetta orchestrazione “sinfonica”, appunto, di Puccini, generatrice feconda d’effetti teatrali e musicali inusitati e che segnano indelebilmente i sentimenti dei protagonisti.
Si conferma così, il nostro direttore, talento raro e prezioso per la cultura napoletana, che ha già portato e continuerà a portare molto frutto nel panorama delle espressioni artistiche della città, interprete singolare e vitale, in particolare modo, della musica del Novecento, che quest’opera inaugurò in modo così precipuo: vero “interprete”, che sa cioè cogliere quel tanto di novità viva e vitale al momento della concezione dell’opera e restituirla intatta e compiuta, ma perfettamente consapevole del tempo che è passato, del doloroso travaglio dell’oggi.
Così, ne son perfetta sintesi, di tale esatta misura, due momenti topici dell’opera: il primo è il famoso Te Deum, grande scena di massa che, come sempre in Puccini, ha il compito di mostrare l’enorme diversità e varietà che abita il mondo, apparentemente affetta da insanabile e dolorosa frattura, per ricapitorarla infine, e invece, in sostanziale unità: Valčuha riesce a sottolineare tutto questo, grazie alla complicità dell’Orchestra, mai così perfettamente in sintonia col suo direttore, e alla perfetta collaborazione con il Coro, diretto per l’ultima volta da Marco Faelli, e al Coro delle voci bianche diretto da Stefania Rinaldi, grazie al dosato e chiaro intervenir, man mano, delle varie sezioni, fino al parossismo finale in cui lo spettatore riesce a toccar con mano, in uno, la perfetta commistione del potere umano con quello divino, la gloria dei cieli che passa, purtroppo, attraverso le pochezze e le miserie umane.
Il secondo momento è quello dei “lugubri preparativi” della (falsa?) fucilazione: in questo caso Valčuha decide di eseguire la drammatica trauermarsch che accompagna quei momenti, fino allo stupore e all’orrore di Tosca, allungando drammaticamente i tempi, facendo in modo che, una volta tanto, siano i tempi della musica a prevaler su quelli dell’azione drammatica, fino a costringere il plotone e l’ufficiale a un cinematografico rallenty che aumenta a dismisura il pathos e l’emozione verso la stretta finale. Naturalmente, quand’è così, (dovrebbe sempre esser così), è la direzione musicale a fissare l’asticella, a decidere risolutamente la soglia dello spettacolo, facendo sì che tutti, regia, scene e attori si adeguino a quella.
Diciamo subito che almeno una cantante ha saputo senz’altro adeguarsi all’altezza, rimanendo ben oltre la soglia: Ainhoa Arteta, nel ruolo eponimo, che già si era fatta ben notare nella bella Manon Lescaut di Oren e Livermore qui al San Carlo, riesce a dare gran credibilità alla lunatica Tosca, aiutata da una sicura presenza scenica e dall’ottima voce, estesa nell’acuto, di grande ampiezza e morbidezza, molto precisa musicalmente e incisivamente espressiva.
Fuori da ogni routine nella sua Vissi d’arte, che raccoglie gran messe d’applausi, riesce ottimamente anche nel lungo duetto “sinfonico” del primo atto e perfino nel pendant del lungo duetto del terzo, finendo per farci ben digerire perfino il Puccini in evidente calo d’ispirazione, arrivando infine alla trauermarsch di cui si è detto, sapendo servire al meglio musica e azione drammatica, in esaltante perfetto connubio.
Il giovane Francesco Pio Galasso ha dovuto improvvisamente sostituire Brian Jagde nel difficile ruolo di Cavaradossi, impervio per difficoltà sia del canto sia del gesto drammatico: la sua prova è senz’altro al di sopra della sufficienza, in sicura progressione man mano che scorre il tempo, indice del grande e comprensibile nervosismo panico che via via si stempera: così, se Recondita armonia soffre ancor dell’ansia del debutto, arriva infine a E lucean le stelle più disteso ma certo non in carenza di concentrazione, sapendo restituirci delicata e al stesso tempo drammatica la rievocazione amorosa, senza trascurar mezze voci e nuances.
Scarpia era Roberto Frontali che, senza possedere la magia vocale dei grandi interpreti storici, in termini di registro acuto e timbro, ha saputo tuttavia giocar di grande intelligenza teatrale e musicale, (ri)creando l’espressiva intensità e la singolare vitalità teatrale del personaggio: il risultato è un imperdibile e interessante punto di equilibrio tra il timbro nobile proprio del baritono che contrasta con la figura ripugnante di Scarpia, che rende ricco di sfaccettature e senza cadute di gusto e del cui animo sa esplorare ombre e luci meno epidermiche, ricercando (e trovando) umanità perfino nel male assoluto che, in fondo, prende carne e sangue in questo personaggio.
Corre l’obbligo di segnalare anche, tra le prestazioni dei comprimari, pure la verve discreta e di buon gusto di Roberto Abbondanza, nel ruolo del Sagrestano, interpretato con leggerezza, comicità misurata e vocalità elegante e brunita di prim’ordine e la potente, espressiva e drammaturgicamente adeguata e moderna interpretazione di Angelotti, da parte di Carlo Cigni.
Se la scena, disegnata da Francesco Zito, va a ricercare il facile effetto mostrandoci, fin dall’atto primo, la gran cupola di Sant’Andrea della Valle in prospettiva insolita, sfidando ogni legge della fisica in favore di un brivido di comprensibile stupore, rinuncia a sorpresa, tuttavia, dall’alto di Castel Sant’Angelo, alla grande opprimente statua di San Michele ai piedi della quale è solito consumarsi la tragedia, per optare invece per lo stemma dei papi Farnese, che campeggia al centro della terrazza, nemmeno poi così incombente; per il resto ordinaria e tradizionale amministrazione, tra preziosi arazzi, ori a profusione, tappeti e chincaglieria varia per far ben felice chi all’opera non s’accosta che raramente e che vuol veder assolutamente Tosca in rosso, Scarpia in nero e Cavaradossi in camicia bianca.
La regia non si discosta, purtroppo, anch’essa da una routinaria prassi, che invano il regista Mario Pontiggia cerca di ravvivare con qualche sprazzo di novità come l’incursione di giovinastri alla fine del Te Deum, che irrompono al culmine della funzione volantinando (supponiamo) in favor del Bonaparte: maquillage che non cambia il senso ipertradizionale dell’operazione, certamente non all’altezza della parte musicale e di cui finisce per costituire quasi insopportabile zavorra.