Refugiado, ovvero lo sguardo dell’angelo custode

[rating=3] La storia, purtroppo, è assai comune: Laura è una donna che subisce violenza dal compagno e tenta di sopravvivere, fuggendo. Il rimando al tema della migrazione, a cui il titolo può indurre, non è perciò un semplice inganno , ma suggerisce, forse in modo non del tutto consapevole, la vicinanza di prospettive che esiste tra gli oppressi: tutti in fuga dalla violenza e dal rischio di morte, tutti alla ricerca della salvezza, di un mondo migliore.

Il dato di originalità risiede, qui, nel punto di vista prevalente all’interno della narrazione: quello del figlio di Laura (di soli 7 anni), Matias. O, per meglio dire, quello del suo angelo custode.

Il Festival dei Popoli presenta Refugiado, di Diego Lerman (2014). L’attenzione è rivolta, però, non al regista, ma al direttore della fotografia: Wojciech Starón, in sala per presentare il film.

Introduce Claudia Maci, coordinatrice del Festival e, insieme a Sandra Binazzi (anch’essa coordinatrice), curatrice della sezione I mestieri del cinema: omaggio a Wojciech Starón.

Pluripremiato sia come direttore della fotografia (El premio di Paula Markovitch, Orso D’Argento alla Berlinale del 2011), che come regista (Siberian Lesson, 1998, film d’esordio e vincitore all’IDFA di Amsterdam), Starón introduce il concetto di “camera empatica”, su cui ha tenuto, il 1° dicembre, un workshop presso l’Auditorium di Sant’Apollonia, (via San Gallo, 25). Il laboratorio (su prenotazione a pagamento) rientra tra le attività di Doc at Work, della sezione Industry del Festival.

Refugiado di Diego Lerman

L’intento generale cui la tecnica della “camera empatica” mira, è quello di rendere ogni fotogramma carico di emozioni, lasciando la libertà al cameraman, che Starón definisce “il primo spettatore”, di innamorarsi dei soggetti che osserva e riprende; di entrare con loro, appunto, in empatia. La visione di Refugiado ne consente un’analisi intuitivo -deduttiva.

Vi si può, infatti, ravvisare l’uso di una soggettiva instabile, che non coincide sempre col punto di vista del personaggio da cui dovrebbe provenire, ma si concretizza anche in dettagli e piani ravvicinati.

E false soggettive, poiché spesso la camera è posizionata in punti seminascosti, da cui pare sbirciare, spiare, un’invisibile e dolce presenza. Così, l’origine di questo punto di vista non viene mostrata, ma rimane fuori campo: è la visione, partecipe e solidale, di un osservatore attento, che segue e condivide le emozioni del soggetto che osserva. Ed è in questa condivisione che si viene a creare la dimensione empatica; il punto di vista dell’angelo custode.

I dettagli definiscono la cura con cui l’angelo osserva il suo protetto: nessun centimetro di pelle, nessun flusso vitale, nessuna emozione va perduta; ogni minimo particolare esprime la tenera affezione all’essere umano. I piani ravvicinati non sono l’epica esaltazione delle virtù attoriali di una star hollywoodiana, ma vere e proprie carezze, lievi, impercettibili, spirituali, con cui l’angelo sembra voler custodire e consolare il suo protetto.

Alcune riprese dal basso, come nell’auto della polizia, che per prima li porta via dalla casa del padre, sottolineano lo spaesamento, l’impotenza, la difficoltà di un bambino, di ogni bambino, di riuscire a decifrare la realtà in cui vive. Realtà creata dagli adulti, per gli adulti, in cui egli deve destreggiarsi, senza avere gli strumenti per farlo, né la capacità di incidere, di modificare il corso degli eventi.

In questi momenti l’angelo custode assume il suo punto di vista, come volesse calarsi nei suoi panni e comprendere, condividere quello spaesamento. Empaticamente. Quando, invece, la sua soggettiva si separa da quella del bambino, è per cullarlo silenziosamente tra amorose e invisibili braccia e sottrarlo, così, alla crudeltà di quel mondo, di quella realtà.

Matias è costretto a crescere velocemente: i continui trasferimenti, i momenti di crisi della madre, la speranza di potersi riconciliare col padre, il bisogno di normalità, di ritrovare gli oggetti quotidiani (e la dimensione familiare e sicura che rappresentano), lo obbligano a fronteggiare problemi eccessivamente gravosi per la sua età. Ed un senso di solitudine che la presenza invisibile pare voglia lenire.

Anche l’incontro con una vivace bambina, in un centro di accoglienza per madri in difficoltà e donne vittime di violenza, viene spezzato dalla decisione della madre, incapace di sostenere la pressione cui viene sottoposta in quel luogo, di fuggire anche da lì.

Solo l’arrivo a casa della nonna, un cottage immerso nel verde, riporta la tranquillità, la familiarità e la dolcezza nelle loro vite. Natura e maternità, come rifugio ideale da ogni oppressione?

Qui l’angelo si congeda: ritrovata una dimensione protetta e serena, il suo compito è esaurito e il resto della vita appartiene a Matias soltanto. È un’altra storia e non sta al punto di vista dell’angelo descriverla. Il film non ha più ragion d’essere e la camera deve salpare per altre mete, alla ricerca di altre vite oppresse, da descrivere e tutelare.

Resta il ricordo di un unico momento veramente felice: quello del gioco tra i due bambini, nel centro di accoglienza. Mentre si nascondono e si cercano, la camera li segue; anch’essa si nasconde e fa capolino, come giocasse insieme a loro, partecipe di quell’entusiasmo. Finché non vengono le volontarie a riprenderli, per portarli a cena.

Un campo vuoto, con al centro il girello ancora in moto, rileva, forte, la presenza dell’angelo: quel residuo di moto è il segno del passaggio dei due bambini; l’eco della loro presenza, che continua a risuonare all’infinito nella memoria dell’angelo. Un istante eterno, che sopravviverà dopo il definitivo congedo. Ci vediamo al cinema!

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