
Emanuele Crialese non è un regista prolifico. Uno di quelli che sforna un film all’anno, o giù di lì. Questo perchè le cose ben fatte necessitano una certa “gestazione” e nell’arte la fretta si sa, come del resto in quasi tutte le cose, non è mai efficace. I lungometraggi che recano la sua firma allora, vedono la luce con la lentezza di un lavoro di cesello, precisi e dettagliati, sempre pieni di sfumature e forse è questo il motivo per cui tutti i suoi film sono dei piccoli grandi capolavori.
E’ il caso certamente anche della sua ultima creazione: L’immensità, prsentato a Roma dallo stesso regista nella gremitissima sala del Cinema Greenwich a Testaccio. Un racconto intenso, profondo sull’identità e la crescita, due temi che solo i più grandi hanno saputo affrontare col giusto garbo, senza scadere nella banalità o nel manierismo. Ma non c’è solo questo nel film, c’è la storia di Adriana, intrappolata in un corpo femminile, ma che si fa chiamare da tutti Andrea e c’è soprattutto Clara, sua madre, magnificamente interpretata da una sempre straordinaria Penélope Cruz. Una madre-bambina complice e sofferente, il cui sguardo in un oltre impreciso fra sogno e realtà, fantasticamente reso dall’immagine di locandina, ci restituisce in un solo fotogramma tutto il vortice di emozioni della pellicola.

Sì le emozioni, quelle dure, vere, morbose, che ci si attaccano all’anima, il film ne è pieno, scandito dalle note di un universo di melodie gentili, oggi difficili da ritrovare nella discografia contemporanea, così cadenzata su ritmi serrati. E’ il canto lento, melodico invece che accompagna la storia di queste due piccole grandi anime intrappolate, l’una in un corpo che non riconosce e l’altra in un matrimonio infelice.
Non si riesce a non emozionarsi di fronte a questo film, un po’ per il gusto dolce amaro di malinconici ricordi fra gli anni ’60 e ’70, quando capelli lunghi e pantaloni a zampa si ribellavano a grembiuli monocromi, imposti a serializzare i generi e non solo quelli. Ma soprattutto per quel senso quasi di apnea, che per due ore ci annega, come in un doveroso lavacro e poi ci fa ripendere il Respiro, tanto per citare un’altro splendido film di Crialese. Non per ridarci fiato, ma per esporci ancora a un “fuori” che non possiamo evitare e che dobbiamo vivere con le fragilità teneramente umane dei nostri corpi, dei nostri pensieri.
In fondo siamo stati tutti Adriana, desiderosi di essere altro e non riuscire ad esserlo, non ancora, non del tutto e allora che sia il sogno di quelle “canzonette” in bianco e nero a portarci via, a immaginare una realtà invece colorata, diversa, liberatoria. Il sogno del futuro. Un futuro forse ancora troppo lontano, a cui non riusciva più a guardare lo sguardo indolente di un’altra celebre Adriana, quella di Io la conoscevo bene, con gli occhi di una giovanissima Stefania Sandrelli, anch’essi affatto dimenticabili. Un personaggio quello, che sembra quasi evocato dalla creatura artistica di Crialese, ma con quel pizzico forse di rabbia e fame di vita, che in ultimo erano mancati alla protagonista di Pietrangeli.
E’ una bella gara di talenti L’immanesità, dal tocco registico alla recitazione, passando per la scenografia, il montaggio, gli effetti visivi e soprattutto una fotografia capace di spezzare letteralmente il fiato, tuffandoci dentro gli occhi infiniti di Luana Giuliani, che interpreta Adriana e poi quelli di Sara, il primissimo amore negato, della piccola Diana, di nonna e naturalmente di Clara. Tante donne amate, afferrate, respinte che in fondo restano sempre dentro, quel dentro che è più importante del fuori e col quale nessuno può evitare di fare i conti. Aldilà di ogni convenzione.