
“Now no sea is deep enough to drown my shame”, Lucretia così esprime la sua disperazione dopo lo stupro da parte di Tarquinius, Prince of Rome, degno figlio dell’ultimo re di Roma, Tarquino detto il Superbo: casta moglie di Collatinus, nobile romano, nota per la sua fedeltà, raro esempio di bellezza e purezza, rifiuta di continuare a convivere con il trauma della sua aggressione, anche se il tiranno viene bandito e viene instaurato un nuovo regime.
Qui al Teatro Petruzzelli di Bari va in scena The Rape of Lucretia di Benjamin Britten, opera certo di rara rappresentazione in Italia, allegoria sull’incapacità di conquistare il potere e di mantenerlo con la forza, caso esemplare di sfruttamento politico di un crimine, nell’indifferenza totale per il destino della vittima: l’antica storia d’onore e tradimento, di abuso e prepotenza è in fondo un pretesto per approfondire i numerosi risvolti psicologici attorno a temi come la violenza, la disuguaglianza nei rapporti tra uomini e donne e la loro diversa visione del mondo.
Fu scritta nel primissimo dopoguerra quando, dopo il successo di Peter Grimes, “the first genuinely successful British opera, Gilbert and Sullivan apart, since Purcell.”, Britten partì per la Germania per tenere dei recital ai sopravvissuti dei campi di concentramento: ciò che vide, soprattutto a Belsen, lo sconvolse talmente da influenzare potentemente tutto ciò che andrà scrivendo da allora in poi.
Non si comprende The Rape of Lucretia se non si tiene presente questo viaggio e le sue conseguenze: presentata al primo Glyndebourne Opera Festival del dopoguerra nel 1946, fu il primo lavoro a cui il compositore applicò la definizione di chamber opera, diciassette strumenti, tredici esecutori, otto personaggi in scena.
Se è vero che questa scelta fu figlia anche delle esigenze pratiche del dopoguerra, della scarsità di risorse economiche e di un pubblico da riconquistare, è altrettanto vero che Britten trasformò queste limitazioni in una poetica della concentrazione drammatica e spirituale: gli orrori della guerra suscitavano – ancor oggi continuando a provocare la nostra coscienza – interrogativi profondi sulla natura del male cui si tenta di dare una risposta in chiave religiosa, nello spirito e nella lettera dell’escalogia cristiana che apre il destino dell’umanità alla vita eterna.
Al centro è il personaggio di Lucretia, ruolo scritto per la voce eccezionale di Kathleen Ferrier, grande contralto inglese e questo è già una scelta singolare per un musicista in cui le figure femminili sono invece sempre subordinate agli uomini: l’opera è tratta da un testo di André Obey – che a sua volta si rifà alla tragedia del Bardo – adattato da Ronald Duncan. Britten usa un linguaggio musicale raffinato ma asciutto, che rifiuta il grand-opéra per privilegiare invece un’espressività più interiorizzata: ogni personaggio è un piccolo mondo emotivo caratterizzato da un tema o da un colore timbrico preciso, e l’orchestrazione è densa ma mai ridondante, molto giocando sui contrasti, tra maschile e femminile, passione e razionalità, violenza e purezza, e tra la tragedia della vicenda antica e la speranza offerta dalla prospettiva cristiana.
Pubblico e critica, in verità, all’inizio faticarono a digerire la cupezza e la scabra intensità del lavoro in cui Britten non si sottrae ad alcuna implicazione morale e spirituale– affrontare uno stupro in musica nel 1946 fu sicuramente audace – ma la cornice cristiana venne talvolta vista come forzata o didascalica, specialmente da critici laici o agnostici, sollevando molti interrogativi etici tuttora dibattuti, anche da parte di credenti, in particolare il fatto che la violenza sessuale potesse venir interpretata come strumento di purificazione o redenzione.

Nonostante queste criticità, in parte fondate, il tempo ha dato ragione a Britten, rivalutandola invece come una delle opere più coerenti e profonde del teatro musicale inglese del Novecento: la tragedia di Lucrezia riflette simbolicamente anche la situazione di Roma, in decadenza sotto la dinastia etrusca, la multidimensionalità dell’opera lascia ampio spazio all’interpretazione, sia ai registi che agli interpreti, tra i quali non solo ogni cantante ma anche ogni strumentista è solista, superando le critiche di proselitismo che in passato sono state mosse all’Autore.
In fondo, a ben guardare, la più intima essenza di quest’opera riflette pienamente quel che è l’eterno tema che interessa il suo Autore, lo scontro, cioè, tra chi è indifeso e chi è spietato e la comunità umana che opprime l’individuo e le sue libertà, questioni, se si vuole, di cogente attualità anche in questa nostra età in cui sembrano tornare i peggiori incubi del Novecento, quegli stessi fantasmi e quelle stesse angosce e speranze che animavano Britten negli anni di travagliato tormento postbellico: i due personaggi di Male Chorus e Female Chorus – non gruppi di persone ma due distinte singole voci – siamo noi e la nostra contemporaneità alla ricerca del senso ultimo di una storia per molti versi inconoscibile al nostro sguardo e dunque non sono solo una riuscita trovata drammaturgica, sono portatori dei nostri umanissimi e attualissimi interrogativi di fronte all’eterna costatazione del male e delle sue ultime conseguenze.
Proprio di qui parte la riflessione di Yannis Kokkos alla base della costruzione della compiuta drammaturgia che anima la sua messinscena, nella visione del regista francese i due personaggi – guide e mediatori insieme – vengono coinvolti in modo attivo nell’azione, finendo per coagulare il loro dire e fare intorno a due polarità dell’unica essenza religiosa. La vocalità di Male Chorus (Moritz Kallenberg) è duttile, chiara, quasi da evangelista bachiano, assumendo un colore didattico, a tratti empatico, a tratti freddo, dalla scrittura declamatoria che si esplica in ampie frasi che si distendono nella tessitura acuta del tenore lirico, portatore di una prospettiva maschile e cristiana, intervenendo sia narrando che commentando: Kokkos lo traduce in una razionalità piuttosto rigida che spesso sembra giustificare la presenza del peccato come qualcosa che entra in una più ampia prospettiva di redenzione.
Female Chorus (Caterina Dellaere) ha tono più lirico, spesso accompagnato da colori caldi, Britten le riserva momenti di intensa commozione, soprattutto nel finale, dove cerca di trovare un significato nella tragedia, rispetto a quella di Male Chorus la sua musica è più melodica e meno recitativa, decisamente più emotiva e compassionevole, è lei che dà voce all’empatia verso Lucretia e che fatica ad accettare la violenza come parte di un disegno: questa continua tensione con Male Chorus diventa parte integrante della dialettica dell’opera, sia quando esprime il dubbio del credente che si colora d’angoscia di fronte al significato del male sia quando si trova a definire santa la redenzione di Lucretia, finendo per rendere plasticamente sulla scena sia l’ineffabile purezza della fede assoluta sia la disperazione che può comportare anche il rischio della perdita della stessa fede.

È a questo dualismo che fa riscontro la concezione dello spazio scenico, organizzato su almeno quattro livelli verticali – grazie all’uso di pedane e piani rialzati – che prendon vita grazie ad un complesso sistema di quinte mobili e velari che, quasi respirando, si alzano e si abbassano rendendo conto, a noi che sediamo in platea, non solo delle diverse ambientazioni dell’opera – campi militari e boschi viste nella loro essenza intimamente maschile, città e domus affrescate in cui domina invece la polarità femminile – ma anche dei diversi stati d’animo dei protagonisti e del loro sentire, cui corrispondono colori e toni musicali distinti, sia nel testo sia nella partitura, esigenze dell’anima, interrogazioni emotive, asserzioni del cuore.
L’uso di proiezioni, a cura di Eric Duranteau, che concretamente utilizza antichi affreschi di sapore pompeiano sulle pareti della domus di Lucretia oppure, nel finale, accostando la figura dolente di Lucretia e del suo corpo abusato a quello martoriato del Cristo, parla invece più frequentemente direttamente al cuore con l’astratto inseguirsi di forme e colori che, come macchie di Rorschach, invitano silenziosamente a palesarsi le nostre inconsce paure, i nostri latenti desideri, impensabili territori all’interno del nostro più riposto sentire, in uno con l’incorporea musicalità della scrittura di Britten, che Jordi Bernàcer sapientemente, alla guida della ristretta compagine orchestrale, riesce a far risuonare in ogni sfumatura del possibile e del pensabile.
Così, nella tessitura musicale lirica e sospesa caratterizzata da linee vocali dolci, intervalli piccoli, armonie limpide, al bianco della purezza centro etico dell’opera, non solo morale, ma esistenziale, che in certo senso dà ordine al mondo, fa riscontro il nero della sua violazione, trauma cosmico che l’orchestra descrive con dinamiche crescenti, oscillazione tonale, ritmo incalzante e spezzato della corsa del cavallo nella notte, lo stupro diventa il centro del dramma non solo come atto fisico, ma come simbolo della violenza di potere, della penetrazione del caos nel mondo dell’ordine femminile, l’interpretazione magistrale del direttore spagnolo non lo descrive, ma lo “fa sentire” come inarrestabile tensione frutto di una musicalità corposa e raffinata insieme in cui non viene percepita alcuna mancanza di consistenza o compattezza dovuta all’esiguità dell’organico, in toto chiamato dal direttore, alla fine, giustamente a cogliere l’applauso del pubblico in palcoscenico.
Così è anche per gli interpreti, oltre ai due Chorus già citati, a cominciare dai tre ruoli maschili: Tarquinius è il predatore, non semplice cattivo, ma uomo lacerato dal desiderio e dal potere, in uno condensando la pulsione erotica, l’impulso militare, la degenerazione morale; né redento, né redimibile, dalla violenza lucida, selvaggia, quasi rituale, Christian Senn sa con naturalezza passare da momenti suadenti a esplosioni di brutalità, dominando con sicurezza il linguaggio aggressivo, angoloso, ricco di salti intervallari e ritmi irregolari che lo caratterizza.
Marco Spotti è Collatinus, basso profondo e statico, simbolo di stabilità, dalla linea musicale spesso calma, larga, quasi morale, che non ha slanci passionali, riuscendo tuttavia a infondere alla sua misurata sofferenza accenti toccanti, messi in evidenza da un accompagnamento orchestrale limpido, con uso di archi in sordina e armonie sospese. Ne esce, alla fine, un personaggio dignitoso, razionale, in certo senso cristiano ante litteram, l’unico che non cerca colpe o vendette, ma sa accogliere invece in sé e nel suo amore per Lucretia la tragedia con convincente senso di spiritualità e perdono.

L’altro baritono, Rory Musgrave, è Junius, forse il personaggio più interessante dal punto di vista politico, dalla vocalità più contenuta, sarcastica, pungente, il suo interprete efficacemente lo disegna con frasi spezzate, accenti improvvisi, armonie mordenti, personaggio inquieto, dalla musicalità sempre in fermento, spesso su una base ritmica spigolosa. Rimarchevole l’amara ironia degli Autori: benché sia la sua provocazione iniziale (“Lucretia’s beautiful but she’s not chaste”) a innescare la tragedia, come spesso in realtà succede, dopo lo stupro, è proprio lui a chieder a gran voce vendetta, e sarà storicamente colui che guiderà la rivolta contro i Tarquini, a riprova di come troppo spesso il populismo imperante nasconda sterminati verminai sotto incorrotte apparenze.
Ai tre personaggi maschili, con perfetta simmetria, si contrappongono i tre femminili: Lucia, serva di Lucretia, giovane e piena di ammirazione per la sua padrona, è voce dell’innocenza e della semplicità domestica, una raccolta femminilità popolare, quasi pastorale, che trova in Francesca Benitez interprete di gran delicatezza, che sa dare il giusto rilievo ad una scrittura vocale piena di grazia, dalla musicalità luminosa, danzante, quasi mozartiana in certi momenti.
Nicole Piccolomini è invece Bianca, la nutrice, più anziana, più pratica, voce della saggezza e dell’esperienza, simbolo d’accudimento ma anche di rassegnazione, l’interprete riesce a dar risalto alla scrittura grave e solida che la caratterizza, con un uso sapiente dei registri bassi, spesso in duo con Lucia, in contrapposizione generazionale (soprano-contralto), con bellissimi intrecci vocali.
Stefanie Iranyi è, infine, Lucretia, fulcro dell’opera, moglie virtuosa, silenziosa, quasi sacrale, personificazione della purezza, ma anche della fragilità femminile in un mondo dominato dalla brutalità maschile, la sua reazione non è vendetta, ma auto-sacrificio, suicidio come gesto estremo per mantenere intatto il proprio onore. Il mezzosoprano tedesco sa donare il giusto accento e una notevole presenza scenica a questo personaggio dalla scrittura vocale dolce, lirica, intensa, mai spettacolare, musicalità che tende all’introspezione, dalle linee cantabili dolorosamente contenute, quasi sempre immerse in una scrittura armonica inquieta e obliqua.
Il momento più toccante è sicuramente la grande scena dopo la violenza, dove Stefanie Iranyi canta in uno stato di shock e raccoglimento, accompagnata da colori orchestrali cupi ma delicatissimi, preludio al suicidio e allo sconcerto che segue, nel fitto buio che potrebbe preceder l’alba: Is this it all? It is all?, è tutto qui, possibile che sia tutto qui, si chiedono gli interpreti alla fine, nella passacaglia finale che è lamento collettivo e meditazione più ampia sulla caducità della vita, una visione che si allarga improvvisamente, la morte di Lucretia acquista un senso collocata in un orizzonte di speranza: no, non è tutto qui, He is all! He is all!, Egli è tutto, l’Amore è tutto, la musica apre finalmente alla possibilità di una riconciliazione e di una rinascita.