Il De rerum natura dei buoni sentimenti

Al Teatro Grande di Pompei Fabio Pisano drammatizza l’opera di Lucrezio, regia di Davide Iodice

Traccia i suoi cerchi a terra, la donna in nero (Aida Talliente, vera protagonista della serata), icona mediterranea di bruno e azzurro, là dove la terra tocca il mare che la feconda, generando le onde, frangendosi, e la schiuma: dicevano gli antichi – risaliva, il sapere loro, su su fino ad arcaiche speranze, a disilluse fonti, a mitiche guerre – che Afrodite, essenza portentosa della bellezza e del bene, allora inscindibili per l’ancor giovane mente degli uomini, qui fosse nata, da un sospiro degli dei incantati da tanto prezioso splendore.

Anche Lucrezio dedica il suo De rerum natura a Venere, voluptas degli uomini e degli dei, vitale principio che anima il mondo: se nell’iconografia classica – che tutti abbiamo negli occhi, perché ripresa dallo splendore rinascimentale – nasce, la dea, da una conchiglia, perla d’inestimabile bellezza, stasera viene generata (MariaTeresa Battista), qui sotto i nostri occhi, da un barcone naufragato sulla riva, vede la luce spaurita e sembra avere già tanta stanchezza sulle spalle, chiede forse solo di accostarsi alle quattro capriole di fumo del focolare, come una cosa, posata in un angolo e dimenticata.

Comincia così il nostro avventurarci nella natura delle cose, in un proemio, sei episodi e una conclusione, calco perfetto, in fondo, di ciò che scrisse quel poeta così misterioso: si apre coi suoi versi e nel suo nome, la serata, in questo sereno inizio dell’estate qui al Teatro Grande di Pompei, seconda giornata dell’ideale quadrilogia del Pompeii Theatrum Mundi che indaga sulle incertezze del presente che ansiosamente interroga il passato per meglio comprendere il futuro. Cosa avvicina il primo secolo prima della nascita di Cristo all’inizio del terzo millennio dopo la nascita di Cristo? Probabilmente ben poco, se non la condivisa umanità che accomuna – sicuramente – ogni uomo al suo fratello, indipendentemente dal tempo o dallo spazio in cui si trovi a vivere. E cosa può portare dunque a metter sulla scena, nel travagliato quotidiano che per ventura ci è dato di attraversare, un’opera poetica di certo affascinante, come il De rerum natura, da cui ci separa un tempo così tanto lungo da correre il rischio di diventare pura astrazione, più di due millenni?

Lo fanno – o tentano di farlo – il giovane drammaturgo Fabio Pisano e il talentuoso regista Davide Iodice, ambedue napoletani, accomunati in un sodalizio che ha già dato in passato frutti deliziosi, (re)suscitando a nostro uso e consumo i versi di Lucrezio: il rapporto tra uomo e natura, il rispetto che oggi dobbiamo al pianeta Terra, visto come l’ultimo dei poveri, la conservazione dell’instabile equilibrio che regge la rete della vita sono tutti temi che oggi sono di bruciante attualità. Diventa allora, la filosofia epicurea che è alla base dell’opera poetica di Lucrezio, chiave di lettura che permette, perfino a noi, di entrare, grazie alla poesia, in un mondo spesso invisibile agli occhi nostri, non tanto e non solo perché infinitamente piccolo o infinitamente grande – come quello degli atomi o degli spazi infiniti che circondano il nostro mondo – ma soprattutto perché infinitamente lontano dai nostri pensieri, dalle nostre cure, dai nostri quotidiani affanni.

La contemplazione della natura diventa – dovrebbe diventare –  il punto di partenza e il punto di approdo di tutti noi, immersi in quello che tanti chiamano oggi Antropocene, era geologica caratterizzata dall’inestinguibile impatto che l’uomo ha provocato sul pianeta, fino a cominciare a farlo diventare immagine sua. Del resto, vero segno di contraddizione, infinite sono le interpretazioni, anche fantasiose, che sono state fatte del gran Poema e del suo misterioso Autore, da quella romantica ed esistenziale che lo vedeva poeta maledetto, poeta dall’angoscia, radicando tale convinzione nel presunto suicidio per amore a quarantaquattro anni d’età, a quelle, invece, che lo immaginavano rivestire i panni d’anticipatore di Karl Marx per il suo insistere sulla liberazione dalle bugie della religione, vero oppio dei popoli ante litteram. Tutto questo per dire che Lucrezio e il suo Poema hanno sempre esercitato gran fascino su chi si trova alle prese con i problemi legati alla sua contemporaneità, cui facilmente sembra offrire, se non soluzioni certo suggestioni che tanto più riescono a colpirci quanto più affondano il loro fondamento in una umanità senza tempo.

Non è un caso, dunque, che le parole con cui inizia questo excursus in un mondo diversamente moderno – i versi del poema che, recitati dalla stessa Madre Natura, costituiscono una sorta di fil rouge che tiene insieme episodi presi dalla cronaca acerba dei giorni nostri – non siano gli esametri dell’Inno a Venere, con cui inizia il De rerum natura, ma invece quelli, forse più famosi, ma certamente più controversi di tutto il poema, il Proemio al Secondo Libro, ricordo ai tempi del liceo le lunghe ore di discussione su quelle parole, per un verso tanto chiare ma allo stesso tempo fonte di turbamento e sgomento.

Suave, mari magno turbantibus aequora ventis, dice il Poeta, è dolce, mentre la superficie del vasto mare è agitata dai venti, contemplare da terra la gran fatica di altri, non perché il soffrire di qualcuno sia un piacere lieto, ma perché è dolce capire da che sventure sei esente: ciò che all’epicureo Lucrezio sembrava saggio e addirittura fonte di piacere, per noi, che abitavamo gli anni del grande impegno, tra il finire dei burrascosi anni sessanta e l’inizio dei plumbei settanta, suonava invece inesorabilmente, inevitabilmente, fatalmente come una vera e propria bestemmia: avevamo torto, naturalmente, è altrove il senso autentico di quei versi splendenti nel loro incontaminato nitore, la vita ci avrebbe insegnato, molto più tardi, severamente ad apprezzarli, sentirli risuonare nel gran teatro antico mi ha dato conforto e calore, proprio all’inizio, inevitabilmente cerco – e trovo – in quei versi antichi il senso del nostro essere qui stasera, meglio, del nostro essere nel mondo in questo preciso momento della storia, in cui più acuto ci sembra il disagio e forti e squassanti ci appaiono gli smarrimenti dovuti ai turbantibus ventis che agitano la superficie del mare e le nostre menti inquiete.

E tuttavia da questo punto in poi si perde sempre più il filo del De rerum natura, progressivamente prende corpo e sostanza quanto annunciato dal sottotitolo There is no planet B, quadri che illustrano la nostra spesso sconsolata attualità, il legame con i versi dell’antico poeta si allenta sempre più, stinge, si perde: si viene a disegnare in vece sua un itinerario, passando attraverso sei episodi tratti dalla cronaca – tal quale faceva l’antico Poeta – che la scrittura di Pisano trasmuta in archetipi e la drammaturgia di Iodice ne fa teatro, cioè canto dei capri – non a caso presenti stasera sulla scena, li sentiamo spesso belare, chiusi nel loro ovile – ansiosamente cercando, con uno stile sicuramente più dionisiaco che apollineo, attraverso la satira e una istintività pre-razionale, una (ri)conciliazione sofferta e irrequieta tra noi e tra noi e la natura, perché anch’essa, straniera o ostica o soggiogata, celebri la festa di riconciliazione con il suo figliuol prodigo, l’uomo.

O, almeno, così dovrebbe essere, nelle buone intenzioni loro, anche se di buone intenzioni son lastricate, purtroppo, le strade che portano all’inferno. Vediamo dunque sfilare sotto i nostri occhi, di volta in volta riempiendo la scena, campioni d’umanità: una ragazza affetta da ecoansia (Greta Domenica Esposito) si interroga sulla mancanza del proprio futuro; s’arrampica poi un’altra ragazza (Carolina Cametti) su una gran sequoia, protesta contro il taglio di quella foresta, sulla scia, probabilmente inconsapevole ma dolorosamente suggestiva, del barone rampante di calviniana memoria; un bracciante straniero (Wael Habib) è costretto a lavorare sotto il sole cocente per undici ore al giorno come uno schiavo cercando di smuovere una terra troppo dura e siccitosa; vediamo donne di Lesbo, isola fino a qualche tempo fa famosa perché patria della Poetessa cui virtù non luce in disadorno ammanto, esercitare una maternità del tutto lontana dagli stereotipi proposti dal pensiero comune, madri per tutti i bambini dei migranti che arrivano lì; minatori africani cercano cose preziose per ritrovarsi invece in mezzo a una delle tante guerre dimenticate; un’orsa e il suo cucciolo, al Polo Nord, finiscono vittime dell’avidità dell’uomo.

Accanto a loro, contro di loro: un gran ministro (Sergio Del Prete) prepara al suo discorso, puntuale e razionale come un discorso di ministro dev’essere, infarcito di buone intenzioni; un palazzinaro cresciuto ad asfalto e smog sogna muri e case e colate di cemento abbattendo intere foreste; un caporale (Giovanni Trono) incita a picconare la terra che si è già venduto per nascondere fetidi tesori, lì occultando il rifiuto degli uomini, le loro innominabili sconcezze; un uomo spara contro l’orsa uccidendola col suo cucciolo.

Il finale è poi affidato a Greta Thunberg (Ilaria Scarano) e al suo famoso discorso del bla-bla, ripartiamo col Recovery bla bla bla… economia green bla bla bla… impatto zero bla bla bla…, la speranza è dire la verità, noi possiamo farcela, in un crescendo amplificato anche dall’intervento di Orchestrìa, formazione musicale di percussioni creata nell’ambito del progetto speciale di musica inclusiva dell’associazione FORGAT ODV all’interno della Scuola Elementare del Teatro – Conservatorio Popolare per le arti della scena. Un grido di certo appassionato che chiude la rappresentazione, nella certezza che i movimenti della distruzione non possono prevalere per sempre, non possono seppellire in eterno la vita.

E tuttavia, alla fine, cessati gli applausi agli attori molto bravi e ai tanti ragazzi che hanno riempito di gioventù entusiasta questa cavea antica, un sapore d’indefinita delusione mi accompagna per i corridoi e le scale poco illuminate, verso il graduale ritorno alla nostra indaffarata civiltà: c’è, di sicuro, l’idea registica ed anche ben definita e forte, nel bene e nel male, come sempre per Davide Iodice; d’altra parte anche il testo di Pisano aveva certamente una sua poetica e una sua compiutezza. Il problema – e questo è imperdonabile e incomprensibile perché non è certo la prima collaborazione tra i due – è che ognuno è poi andato per sua strada, chiusi ciascuno nella propria olimpica serenità e indefettibile certezza: scrive nelle sue note Pisano che Iodice, com’è ovvio che sia, del suo testo ha composto una partitura per la messa in scena, rielaborando alcune parti del testo e eliminandone altre, non so se lo iato, la frattura tra l’una e l’altra cosa qui sia avvenuto o la ragione è da ricercarsi altrove, di certo il risultato non entusiasma.

Al di là, infatti, dell’indubbia suggestione di certe scene, di accorato lirismo di altre, di ottime buone intenzioni sempre, soffre, lo spettacolo, di una sorta di rigidità che non invita al pianto, alla memoria, al desiderio, uno schematismo grigio e ansioso e astioso sembra dominare invece la scena, se ne impadronisce quasi subito, annichilendo ogni guizzo vitale, costretto a comparire di rado, qua e là, nelle carte del ministro che si sparpagliano al vento come coriandoli, nelle speranze perse in mezzo a un frastaglio di rami e foglie, alla ricerca di un ultimo grappolo insensato di parole idee sogni, nelle bandiere abbattute come fossero alberi, nel brusio che trasmuta in canto, in processione, in croce, segnando forse il limite tra metafora e religiosità popolare che ormai serve solo a occultare la divinità che è qui con noi.

Sprazzi di vitalità isolati in un immobile mare di quadretti dall’agrodolce sapore deamicisiano, la tragedia – perché di questo stiamo parlando – dovrebbe possedere la sapienza e il gusto amaro dell’incertezza penosa tra due istanze etiche tra loro contrapposte, ciò che abbiamo visto altro non è che, invece, e spiace dirlo, prevedibile e banale mostra di situazioni scontate nella loro essenza, manifesti coltivati nella retorica tranquillizzante dei buoni sentimenti, in un rincorrersi di tematiche – troppe – presentate in siparietti obbedendo all’ansia, probabilmente, di non lasciar fuori nulla, dal dissesto climatico al rapporto con gli animali, dai migranti alle guerre, dagli egoismi dei pochi alle virtù dei più, buoni sempre indefettibilmente rappresentati come angelici santi, cattivi invariabilmente come ridicoli demoni, affastellando temi su temi con il lodevolissimo compito, certo, d’insegnar qualcosa di giusto e buono ma cadendo nella trappola di troppo povera semplificazione, un potpourri di episodi edificanti tenuti insieme dall’esile filo d’una narrazione fragile e stinta, acquerelli fatti per commuovere e insegnare, che si disegnano, rapidi, sulla superficie delle cose, senza mai immergersi nelle ragioni profonde, limitandosi a rappresentare il luccichìo, confuso e rilucente, prezioso e vano, che può dare la prima ombra della sera, in un quieto tramonto d’inizio estate.

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Attori
Drammaturgia
Allestimento scenotecnico
Pubblico
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il-de-rerum-natura-dei-buoni-sentimentiDe rerum natura <br>[There is no planet B] <br>liberamente ispirato al De Rerum Natura di Tito Lucrezio Caro <br>adattamento e regia Davide Iodice <br>drammaturgia Fabio Pisano <br>con (in o.a) Aida Talliente (La Natura/Prima Donna di Lesbo/Mamma Orsa),Ilaria Scarano (Seconda donna di Lesbo/Emilia), Carolina Cametti(Terza donna di Lesbo/La donna sull’albero), MariaTeresa Battista (Venere),Greta Domenica Esposito (Ragazza), Sergio Del Prete (Ministro/Pacific Lumber), Wael Habib (Bracciante/altre figure), Giovanni Trono (Padrone/altre figure), Marco Palumbo (Striato, altre figure), Emilio Vacca (Protele, altre figure) <br>e con la partecipazione straordinaria di ORCHESTRÌA Marco Fuccio, Giancarla Oliva, Chiara Alina Di Sarno, Giuseppina Oliva, Tommaso Renzuto Iodice, Simone Rijavec, Laura Errico, Alessandro La Rocca, Paola Gargiulo, Antonella Esposito, Massimo Renzetti, Guglielmo Gargarella, Dmitry Medici, Nicolas Sacrez, Lucrezia Pirani, Melina Russo, Giulio Sica, Francesco Cicatiello, Alina Shost, Giulia Caporrino, Daniele Rensi, Ilaria Giorgi, Giulia Albero, Giorgio Albero [progetto speciale di musica inclusiva dell’associazione FORGAT ODV all’interno della Scuola Elementare del Teatro – Conservatorio Popolare per le arti della scena, a cura di Francesco Paolo Manna, Antonio Fraioli, Eleonora Ricciardi] <br>scene maschere e pupazzi Tiziano Fario <br>costumi Daniela Salernitano <br>luci Loic Francois Hamelin <br>musiche originali Lino Cannavacciuolo <br>assistente alla regia Carlotta Campobasso <br>produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale <br>questo spettacolo è dedicato alla memoria della Dott.ssa Annamaria Ciarallo, botanica. <br>Durata: 1 ora e 40 minuti (atto unico) <br>In scena dal 27 al 29 giugno 2024 <br>Teatro Grande di Pompei, 27 giugno 2024