
“C’è Libeccio” è una delle prime battute d’apertura di “4-5-6”, uno dei sette spettacoli che ci ha lasciato Mattia Torre, geniale e preziosissima penna, troppo presto strappata al nostro tempo. Il Libeccio sì, vento umido e di mareggiata, mai foriero di buone speranze. Ovidio (Massimo De Lorenzo) se lo sente nelle ossa e cerca con sua moglie Maria Guglielma (Cristina Pellegrino) di mettersi a riparo almeno l’anima, nella serena consapevolezza che, nel futuro, l’unica certezza è la morte.
Non la pensa così forse il povero Genesio (Carlo De Ruggieri) figlio alla catena, che nel fioretto della rinuncia alle sigarette, spera nel miracolo di una sospirata fuga verso la capitale. Il destino però è infame e già pronto a intrappolare nella tetra vallata calabra queste tre vite di confine e solitudini antiche. L’arrivo forse di “Gargiulo” (Giordano Agrusta) e della sua misteriosa operazione in favore della famiglia, potrà magari sanare ogni cosa, non ultimo con la tanto attesa restituzione di una teglia, usata per un omaggio culinario in occasione di un funerale.
Già perché in terra di Calabria resiste ancora la tradizione dell’offerta di cibo ai parenti del defunto, una delle tante, continue, inesauribili occorrenze in cui il consumo dei pasti diventa protagonista. E di pietanze se ne snocciolano parecchie durante lo spettacolo (in scena al Vascello fino al 2 marzo 2024), perché tanto quanto Ovidio, Genesio e Maria Guglielma, esse partecipano alla “recita” necessaria per ottenere gli oscuri favori dell’ospite che, nientemeno, sta per farsi prete schivando l’IVA. È un racconto irresistibile, divertente e crudele sulla famiglia-prigione, in cui dopotutto contano poche inutili cose, in nome delle quali tutto deve necessariamente piegarsi e soccombere a superiori dettami.

Così si snoda inaspettatamente fluida e gagliarda la ridicola parabola di questa famiglia meridionale, impastando su palco dialetto e neologismi grotteschi che prestano il fianco alla sempre perfetta battuta, in un pastiche linguistico con tratti da grammelot. Non importa se ci sfugge dopotutto il significato dello “scolopenzi”, non meglio precisato utensile da cucina? Ciò che conta è quello che deve ricordarci: l’importanza assoluta dell’obbedienza, prima di tutto silenziosa, senza “volate” fuori dal tracciato famigliare.
Scorre tutto leggero e pesantissimo al tempo stesso, mentre sui personaggi aleggia “il sugo eterno” della nonna, il cui fantasma, anch’esso di marca gastronomica, diventa l’improbabile fucile checoviano appeso al muro. Qualcosa deve succedere e succederà in un finale che regala al pubblico il più riuscito fra i coup de théâtre. Il gioco al rimbalzo regge fino all’ultimo, aprendosi a plurime chiavi di lettura, ma soprattutto offrendo al pubblico 4 performance attoriali strepitose, fra le quali è impossibile stilare primati. Grandi attori, grande testo, grande regia, un meccanismo perfetto che arriva dritto come una freccia in testa e non esce più. Mattia Torre dopotutto è stato vero maestro in questo genere di racconto dalla comicità intelligente e mai esacerbata, dove il narrato si fa magico oltre ogni previsione e ti tuffa dentro un’accoglientissima sospensione d’incredulità. Ci manca molto e non certo solo per Boris.