Nabucco colossal d’annata

Al Petruzzelli di Bari l'opera 'vintage' firmata Joseph Franconi Lee

[rating=2] Se a qualcuno fosse per ventura capitato d’entrare al Petruzzelli qui a Bari ieri sera, del tutto ignaro di cosa s’andasse rappresentando, avrebbe certo avuto l’insolita sensazione d’aver infranto la barriera del tempo, e d’esser catapultato, senza saper né come né quando, in un altrove che aveva sapore e aspetto d’almeno cinquant’anni fa, nei colorati anni sessanta del secolo breve. Si serve infatti, questo Nabucco dichiaratamente ostentatamente provocatoriamente “tradizionale” – qualsiasi cosa voglia dire questo termine – delle scene dipinte – negli anni sessanta, appunto, la datazione non è più precisa – da Peter Hall, un artista americano che è stato inventore di costumi e scene (più gli uni che le altre, in verità) durante tutta la sua lunga vita: le tele con le scene del Nabucco si trovano in deposito presso la Scala, e quando si pensava a questo allestimento per il teatro barese, qualcuno se n’è ricordato e ha ben pensato di riesumarle e adattarle alla bisogna. Ma l’operazione vintage non si è fermata certo qui.

Il regista, Joseph Franconi Lee, americano anch’egli, benché di madre pugliese, ha ben messo in chiaro di non voler scrivere note di regia, occultandosi la direzione sua del tutto di fronte alla musica, mettendosi ognora a servizio di questa: ebbene, se il risultato è quello visto ieri sera, qualcuno – non il regista, che per sua ostentata scelta ha preferito il silenzio – ci dovrebbe spiegare il perché di quei fermo-immagine da cui parte e finisce ogni scena (a somiglianza di spezzoni cinematografici, oppure di antiche scene dipinte da un artista pompier?), l’impronta fortemente enfatica che ha assunto la recitazione dei cantanti, del coro, dei mimi e delle comparse, impegnati in grandi e larghi gesti, incedendo spesso a spada sguainata e tesa verso l’alto, con gran svolazzo di veli e di mantelli, il passo dell’oca con cui marcian le milizie, il tutto in un rutilare e mulinare frenetico e continuo di colori, lance, mannaie e stendardi.

Nabucco ph Cofano

Evidentemente, penso io – ma io, come altre volte notato, son solo un critico – la dichiarata scelta di non dirigere porta inevitabilmente, e per contrappasso, a pesantemente incidere e intervenire, invece, gonfiando di retorica holliwoodiana una partitura e un libretto che, certo, portano nel DNA i geni della popolanità e a volte perfino della grossolanità, rifuggendo ogni tentativo di approfondimento psicologico e ogni sfumatura, tese come sono, soprattutto la musica del giovane Verdi, a profonder in ogni dove energia e vitalità allo scontro e al collidere inevitabile di grandi forze: Amore, Potere, Ambizione diventano i motori dell’azione, che tutto travolge; soltanto poi, passati gli anni di galera, maturerà il Verdi della quasi ossessiva ricerca d’equilibrio tra l’esteriorità e l’interiorità, storia dei popoli e storia dei singoli. Se ci si ferma alla superficie, alla vivacità e ai colori, al convenzionale e al patetico, si rischia, con certe non-scelte registiche (che pure sono scelte), a inevitabilmente accentuare i limiti della partitura piuttosto che i meriti, che pure ci sono, e tanti, e lo spettatore – almeno questo spettatore – rischia di rimanere interdetto (a volte perfino infastidito) di fronte ai grandi ariosi gesti, ai pur ricchissimi costumi di Pasquale Grossi, ai pur volenterosi movimenti mimici curati da Marta Ferri; perfino, si è voluto copiar l’antico pure nei cambi di scena, che laboriosamente avvengono dietro al calar di velari oscuri e senza luci in sala, rigorosamente come da libretto, invece, il chiudersi del sipario con intervallo al termine d’ogni canonico atto: anche qui, non siamo più abituati, la contemporaneità (e la moderna tecnica) ci ha portati ad una più immediata fruizione, mal sopportiamo (mal sopporto) la dilatazione del tempo cui inevitabilmente (volutamente) porta tutto questo.

Sul piano musicale, la direzione del tedesco Roland Böer ci è sembrata invece proceder per sottrazione, limitando ove possibile l’andamento retorico e popolano (non credo sia solo effetto del contrasto con il piano scenico), cercando di sottolineare, e spesso riuscendovi, le perle nascoste della partitura: e non mi riferisco certo all’abusata scena sulle sponde dell’Eufrate del Va pensiero (per una volta realizzata in quasi sobrietà pure dal regista, tranne l’ostentata e gratuita gravida in primo piano) , quanto a quelle parti che in qualche modo anticipano il Verdi maturo, che portano – come spore che promettono la pianta rigogliosa di domani – i segni e i semi dei grandi personaggi e delle grandi scene che il Maestro scriverà: come non pensare alla musica che accompagna il muto incedere del buon re Duncano che visita Macbeth la sera prima della notte fatale, ascoltando la musichetta bandistica che, da fuori, accompagna l’entrata di Nabucco al tempio nel primo atto? E non pare, tutto il personaggio di Nabucco, anticipazione – musicalmente e drammaturgicamente – proprio di Macbeth, del suo delirio di grandezza e della sua follia? Non sembra sentir cantare l’ombra futura d’Amneris nella meditazione solitaria d’Abigaille dell’inizio del second’atto?

Nabucco ph Cofano

Ha una bella voce baritonale dal gran bel timbro scuro e potente, Leo An, che anche scenicamente ben sostiene i ricchi abiti del ruolo del titolo; quasi analogo discorso può valere per l’Abigaille di Rachele Stanisci, che, dotata di bel timbro sulle note scure che donano grand’efficacia alla definizione del personaggio, stride un po’ su quelle acute, soprattutto nei repentini saliscendi di quel virtuosismo vocale che, per la prima volta, definisce quell’equazione tra gorgheggio e ambigua falsità che è così presente nella sintassi melodrammatica verdiana. Voce potente e dalle sonorità piene ha il basso Abramo Rosalen, un Zaccaria ieratico e solenne, benché vistosamente l’interprete risulti ben più giovane dell’ottuagenario, benché energico, personaggio. Nella norma l’Ismaele di Antonio Corianò e la Fenena di Cinzia Chiarini, che non escono dalla convenzionalità dei rispettivi personaggi, amanti un po’ sacrificati in questo dramma che direttamente discende dai Quaresimali e che quindi ben poco spazio lascia all’erotismo: in futuro, anche qui, sarà diverso. Alla fine, grandi applausi per tutti gli interpreti e per il coro, guidato come sempre con grande professionalità da Franco Sebastiani, da parte di un pubblico che, sebbene non molto numeroso – molti i posti in platea rimasti vuoti – si è dimostrato prodigo di applausi anche, talvolta, ingenuamente o meno che sia, fuori tempo e contesto.

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