
[rating=4] Ibsen e la vocazione all’estraneità
Ibsen e la sua opera incentrata sull’incomunicabilità; Ibsen, eterna ossessione per i segreti: quei torbidi peccati che intossicano l’anima, le mille ossessioni capaci di lacerare i vincoli fra consanguinei e devastare l’apparente pace familiare, tuttavia anche capaci di svelare nuovi scenari.
La guerra aperta alle convenzioni e la concreta presa di coscienza dei problemi sono dunque i temi, cari al drammaturgo norvegese, che ha rivoluzionato l’idea di “teatro borghese” e anticipato il lavoro di scavo psicologico elaborato e codificato in psicoanalisi, nel corso dei decenni seguenti.
Hedda Gabler, notissimo dramma in quattro atti, non fa eccezione alla regola. Pubblicato nel 1890 è rappresentato, l’anno seguente, al teatro Cuvilliès di Monaco di Baviera.
Come sempre l’opera, per gli aspetti caratteriali di Hedda, si attira il solito coro unanime di critiche e proteste: il personaggio centrale è inviso a tutti: è troppo ambizioso e del tutto discordante dai modelli femminili imposti all’epoca.
Accettare l’infelicità e l’insoddisfazione di Hedda sarebbe passata come una parziale ammissione di torto: ovvero ammettere il fallimento dei claustrofobici modelli femminili imposti dalla società: (matrimonio e maternità, sottomissione).
La versione di Hedda
Una prospettiva tutta al femminile, la visione di Cristina Pezzoli, su Hedda Gabler ma anche in perfetta sintonia col pensiero del drammaturgo.
In definitiva, ci domandiamo, oggi: che tipo di dramma è “Hedda Gabler”? Chi è davvero questa donna così algida?
Hedda è lo sguardo lucido su un mondo a cavallo fra due secoli. È l’incapacità, degli uomini, di accogliere ed accettare le aspirazioni femminili. È il pensiero di mogli e figlie, incapaci di adattarsi ai modelli tradizionali, ma troppo confuse per cercarne di nuovi.
Hedda è un’antesignana del pensiero libero. Quale consapevole orgoglioso essere, cerca una scappatoia di vita e pensa, a torto, di averla trovata nella convenzione del matrimonio d’interesse.
La vuota inconsistenza del marito Tesman e lo spettro della passione furiosa per il brillante Lovborg finiranno col riempire e ossessionare la sua mente. Confusione e dolore trascinano la giovane e infelice sposa, un giorno dopo l’altro, in uno stato di annoiato e cinico distacco, verso la vita.
La partitura registica elaborata da Cristina Pezzoli è articolata e crea una cosmogonia complessa fra Hedda e la corte di personaggi che le ruotano intorno.
Ibsen la scoperte delle nevrosi prima della psicoanalisi
Dramma interpretabile in chiave psicoanalitica nel quale, ogni personaggio, paga lo scotto della propria inadattabilità alla vita. L’infantilismo e la pedanteria di Jorgen Tesman (reso, da Angelo Tronca, con efficacia anche se a tratti eccessivamente accentuato sulle note dell’accondiscendenza), Ejilert Lovborg, spirito inquieto e geniale è interpretato da Marco Brizzi, piglio spavaldo, nella sua iniziale e spocchiosa esibizione di salvezza, quanto ancora più devastato e convincente nel finale: la disastrosa ricaduta nell’alcolismo.
Monica Faggiani offre la visione di una Hedda elegante e distaccata. Narcisista compulsiva, travolta da eccessi di furore, quanto capace d’improvvisi gelidi voltafaccia. L’interpretazione proposta è naturale e rigorosa: mai forzata su registri teatrali di tradizione ibseniana. L’assessore Brack è reso, nella complessa interpretazione di Dario Merlini, come un personaggio di spessore: manipolatore sempre pronto a sfruttare le debolezze altrui. La figura di Berte, anziana governante dalla ascendenze Cechoviane, è interpretata con efficacia da Monica Menchi. Sulla scena, la sua presenza, assume una doppia connotazione: testimone confusa e preoccupata delle follie della nuova padrona di casa e oscuro e simbolico messaggero di morte. Laura Anzani è una Thea Elvested forse un po’ compassata, ed imbrigliata, nel ruolo di “madre borghese”, e tuttavia pronta a riservare grinta ed una forza inaspettata nei confronti di Hedda e dell’amante Lovborg.
La partecipazione straordinaria di Rosalina Neri – in veste di zia, Julle Tesman – la sua presenza sul palco, sebbene impreziosisca l’ensemble, non si configura solo come semplice cameo bensì quale elemento perfettamente inserito e attivo nell’equilibrio della pièce.
Vincitori e vinti
Esistono due tipi di persone: coloro che vivono la vita nel fulgore alla ricerca dello sfavillio ed i mediocri: ovvero, tutti coloro che si accontentano di raccogliere i resti degli altri. Con estremo acume Ibsen traccia un profilo definito di entrambe le tipologie di individui e le loro dinamiche relazionali.
La comunanza d’intenti e d’indole, fra Tesman e la signora Elvested, e la loro netta contrapposizione con Hedda Gabler e Ejilert Lovboerg traccia con chiarezza, una linea di demarcazione fra “vincitori e vinti” e chiarisce la distinzione fra onore e pochezza.
La scena plasmabile
Una menzione particolare allo studio versatile e creativo delle scene ideate da Paolo Calafiore. Struttura fisica e disegno luci costituiscono un insieme osmotico capace accordarsi e scandire, con metafore visive ed un gioco di trasparenze, l’evolversi cupo del dramma e delle percezione di Hedda. La casa da, luogo spazioso e illuminato dal sole, è destinata a trasformarsi in una sorta di cripta oscura e priva di vie di fuga.
La scelta dei costumi rielabora in chiave moderna il testo conferendole carattere di atemporalità: la scelta della parrucca di Thea Elvested e della giacca da camera di Tesman è indice, occasionale, di qualche concessione alla stravaganza.
Nell’insieme, una valida e moderna lettura del classico ibseniano. La visione potrebbe rappresentare l’occasione giusta per accostarsi ad un autore poco frequentato e, a torto, considerato pesante e fuori tempo.