
[rating=5] Va tutto bene, bella prova di drammaturgia collettiva della compagnia Oyes su idea originale del regista Stefano Cordella, arriva dritto allo spettatore, perché parla una lingua reale e condivisa, fatta di contraddizioni, coincidenze, attimi folgoranti in mezzo alla palude del sempre uguale.
In un’ambientazione modesta ma pratica, accogliente, incontriamo cinque personaggi, ognuno mosso da uno specifico bisogno, ognuno più o meno scosso da una certa paura, che, beninteso, si cerca di tenere alla larga, o a bada. Sotto lo stesso tetto, ma ciascuno barricato nel proprio angolo solitario, convivono Attilio, insicuro neodiciottenne abbandonato dal padre e la madre Annamaria, casalinga frustrata e sola, in simbiosi con la televisione. Entrambi fanno i conti con la scelta di andarsene e lasciarli del poco ortodossa capo famiglia, Ruggero, in cerca del brivido e della possibilità di rivivere tutto il suo entusiasmo da eterno ragazzino. La sua ricerca lo porta al Paradise (il villaggio vacanze idealizzato), dove si lega alla dolce e sorridente Lilly, che lo segue accomodante nei suoi guizzi pindarici mentre cerca di afferrare la felicità, quella con la F maiuscola, mentre a casa il figlio sopravvive sostituendo la figura paterna con quella dell’amico “più avanti”, Edo, apparentemente sempre sicuro di sé stesso. Guidato da lui, Attilio, “un morto che cammina, a cui bisogna cavar fuori le parole di bocca, che guarda sempre per terra” (come lo descrive il padre), inizia un training per diventare Attila nei fatti oltre che nel nome, perché è così che lo chiama l’amico Edo, che gli vuole insegnare l’immaginazione e la liberazione dell’impulso sessuale.
Durante una scorrevolissima ora e mezza, i cinque si avvicendano sul palcoscenico, per lo più in scene a coppie, a volte con stacchi netti, altre con soluzioni più fluide. Spesso saltano letteralmente sul palco provenendo dal fondo dell’intima platea dello spazio Tertulliano; bella trovata, poiché il piccolo attraversamento dello spazio del pubblico contribuisce a renderceli personaggi così familiari. C’è il tempo di scoprirli e capirli con naturalezza, alla luce del loro passato, di come parlano; la vicenda può passare in secondo piano, tanto ci interessano le loro storie personali. Sì, perché in momenti topici come nel dinamismo esilarante dell’accoppiata Edo/Attila, nel monologo/dialogo della madre con il figlio e nello scambio al cimitero tra l’ex coppia Annamaria/Ruggero, rintracciamo persone vere, che vivono la contraddizione di questo fragile periodo storico e quel fluttuare continuo tra tragico e meno tragico che nutre la vita, e che per fortuna ancora il teatro riesce a raccontare buffamente.
Temi complessi, come la morte, l’abbandono, l’affetto, il sesso, sono quindi affrontati con semplicità e tanta, intelligente ironia. Il risultato è che ci si diverte ma c’è anche la possibilità, quasi a tradimento, di riflettere profondamente, di commuoversi, anche solo per una parola o un’immagine legata alla musica. Molto apprezzabili le scelte stilistiche di ogni personaggio: certe frasi icastiche arrivano come un bazooka e non te le dimentichi, buoni i ritmi, scrittura asciutta e senza fronzoli. Verso la fine le scene di coppia si fanno più emozionalmente intense, pur rimanendo divertenti: bellissimo il momento tra Annamaria ed Edo, che fino a prima sembravano non aver nessuna necessità di interazione, e invece proprio loro risponderanno, almeno per un istante, l’una al bisogno dell’altro. L’imprevedibile accade. C’est la vie.
E se le luci, i costumi e la scelta della scenografia hanno un ruolo molto importante, particolarmente mirati sono invece i momenti accompagnati musicalmente, con la scelta di pochi brani, molto noti e ribaditi in diverse occasioni. Con la celebre “You’re the one that I want” di Grease, rivista in chiave malinconica, si apre e si chiude la pièce, spaccato non concluso di vita (e post mortem), dolceamaro com’è il vivere quotidiano, tra il primo e l’ultimo abbandono.. Forse, non ci resta che ripetercelo meditando, urlando, parlando alla tv, cantando e soprattutto, ironizzandoci su: dai, “va tutto bene”.