
Lo spettacolo, a leggere il programma di sala, promette d’esser breve (“la brevità, gran pregio”, diceva Rodolfo) senza esser fuggevole, venendo dalla leggera ma pensosa mano di Ferenc Molnàr, noto in Italia soprattutto (almeno quand’ero ragazzo io, un po’ di tempo fa) per I ragazzi della via Pál, Bildungsroman che ha accompagnato la crescita di tanti qui da noi. Siamo al Teatro Bellini, qui a Napoli, alla prima partenopea di Souper, per l’adattamento e la regia di Fausto Paravidino, che assicura non aver cambiato granché, dall’originale testo, tradotto da Ada Salvatore, perché di grande attualità pur oggi, a quasi novant’anni dalla genesi: non stento a crederlo, la corruzione accompagnando l’uomo da sempre, nella storia sua, sotto qualsiasi latitudine e in qualsiasi tempo. In sala si fa buio, lo spettacolo comincia, alzandosi il sipario e per un attimo mostrandoci una scena (di Laura Benzi) in cui di gran lunga prevalgono linee rette: una bella sala di ricca casa, dalle pareti chiare profilate da una più scura boiserie, s’apre sul fondo in un gran varco chi s’accede da breve scala, illuminata d’ampia finestra, anch’essa incrociata da infissi scuri. Sulla grande bianca tavola al centro, che occupa tutta la scena, solo, per ora, due candelieri spenti, la sala venendo illuminata, dall’alto, da un gran lampadario di cristallo, pure questo composto di parallelepipedi: le sole linee curve concesse son quelle delle sedie in paglia di Vienna e il ricco smerlo, che segue una linea festonata per tutta la lunghezza della tovaglia; una cameriera (Federica De Benedittis) in tipica uniforme d’ordinanza, nera con grembiule bianco, crestina e polsini inamidati, attraversa la scena dal fondo fino al proscenio: bionda, giovane e carina, zoppica però vistosamente. Si volta, alla fine, verso il fondo, perché è entrato in scena quello che sapremo esser poi il padrone di casa (Riccardo Maranzana): corre fra i due un lungo, insistito sguardo d’intesa prima del buio.
Quando le luci, dopo un attimo, si riaccendono, la cena è al culmine, ricche portate sono sulla tavola, è il momento ormai del brindisi: un giovanotto bleso (Filippo Borghi) con un improbabile e multicolore panciotto sotto una giacca blu elettrico, con fare untuoso e ruffiano si spertica d’elogi per il padrone di casa, che occupa il centro della tavola. Impariamo pian piano a conoscere i convitati, caratterizzati dalla regia e dai costumi (di Sandra Cardini) in modo molto espressionista, nei gesti, nel modo di parlare, nell’esagerazione deformante della caricatura che accentua i tratti portandoli alla maschera: volutamente, credo, la regia non ha però esagerato – avrebbe potuto condurre la caratterizzazione ben più avanti, del resto il moderno bestiario che il mondo dei potenti dell’oggi offre alla nostra vista è ben più smodatamente pacchiano, volgare e pretenzioso di quello rappresentato – perché il testo è quello che è: il Molnàr drammaturgo non ama le tinte forti più del romanziere, sa essere profondo, certo, ma senza arrivar mai veramente al dramma, la sua mano è leggera comunque, anche quando, come in questo caso, tratta temi sociali (del resto sempre ben presenti all’autore), e perfino nell’ironia indulge più all’umorismo che alla satira, al sorriso più che alla risata franca e liberatoria e allo sberleffo.
Così, vediamo la padrona di casa (Maria Grazia Plos) addobbata di gioielli e perle come una madonna in processione, che intuiamo riflesso di segno uguale e contrario alle umilissime origini, comuni al marito, che le confessa nel suo discorso; d’altra parte la baronessa (Ester Galazzi), che evidentemente non condivide la stessa umiltà di lignaggio, è però francamente svampita e visibilmente dedita ai piaceri del bere, continuamente pretendendo il bicchiere pieno dalla camerierina che s’affanna claudicante con la sua bottiglia di champagne da un commensale all’altro; c’è poi l’anziano dottore (Francesco Migliaccio) che porta occhiali alla moda e si picca esser grande oratore, facendosi pregare per un brindisi infarcito di battute da due soldi vantate e vendute per gran facezie; infine una coppia di più giovani arrivisti, che intuiamo pronti a qualunque cosa in cambio di ricchezza e potere, lui (Adriano Braidotti), irascibile per paura, lo percepiamo appartenere alla razza dei forti con i deboli e debole con i forti, pronto pure ad offrir tacendo le grazie della bella moglie come merce di scambio per traffici innominabili, lei (Lara Komar) scosciata e volgarotta, ben si acconcia alla bisogna, lavorando però pure per inciuci suoi, con l’uno o l’altro dei potenti di turno: bella coppia da milanodabere.
A questo punto, nel bel mezzo del discorso del festeggiato, che ha riunito questo bel campionario d’umanità potente per festeggiar meglio la gloria sua di gran banchiere, si presenta alla porta della casa elegante un poliziotto (Andrea Germani): ha la divisa da carabiniere e la parlata con forte accento del sud (“con quella stoffa ruvida, che puzza di rancio furerie e popolo… i poliziotti erano i poveri”) e, pur senza formulare accuse precise, pretende portare il padrone di casa in caserma. Sconcerto, imbarazzo, paura, il mondo che fin allora vorticosamente e velocemente ruotava, oliato da soldi e potere, sembra improvvisamente fermarsi. Un affar di polizia presuppone illecito, forse l’affare dei boschi… è evidente che nell’affare dei boschi, che comprendiamo condotto sul filo della legalità, c’entrano un po’ tutti, visto che sorrisi melliflui e risate sconce mutano improvvisamente in minacce e sospetti reciproci, quasi si passa a vie di fatto, nel repentino trasmutare che spesso e dolorosamente si vede ogni giorno nella vita, al cadere in disgrazia di qualcuno. Poi… naturalmente non rivelerò il finale, che ognuno può immaginare a piacer suo (e questo può essere un bel test della nostra personale propensione a giudicar siffatte vicende, che del resto sono spesso cronache).
La regia condisce il tutto con frasi proiettate sulla parete di fondo, sottolineature, piccoli commenti, battute in caratteri jugendstil quasi ad impronta fumettistica; rimarca poi la diversa condizione di questi appartenenti al bel mondo rispetto all’universo dei “normali” attraverso la figura della cameriera; ci è sembrato infatti voler accentuare, il regista, il contrasto tra l’uno e l’altro mondo: da un lato gli abiti colorati e ricchi d’orpelli, dall’altro la sobrietà degli appartenenti al popolo (che però indossa divise e questo andrebbe freudianamente indagato), di qua le risate e la loquela spesso vuota e insulsa, di là il silenzio, da una parte il muoversi velocemente e rapidamente mutar posizione e schieramento, dall’altra parte lo spostarsi inceppato e a fatica per via della zoppìa, espediente che esalta i contrasti e il conflitto. Pure se di conflitto, in verità, non si può francamente parlare, visto che l’unica persona che il protagonista sente il bisogno di salutare con un bacio sulla bocca, andando in caserma incontro al suo destino, non è la moglie, non la probabile amante, ma proprio la piccola cameriera, suscitando magari, se proprio si vuole, ulteriori riflessioni sul versante personale e sociale. È una regia, dunque, ben assistita dal buon lavoro degli attori della Compagnia del Teatro Stabile del Friuli, della scenografia, della musica e delle luci (Daniele Natali e Alessandro Macorigh), che assolve al meglio il suo compito: alla fine resta tuttavia un sapor d’incompiutezza, di vaga insoddisfazione, come dopo aver assaggiato un cibo buono, certo, e ben cucinato, ma piuttosto insipido. Credo però, come detto, che non sia dovuto al demerito di chi ci ha lavorato, ma, come accennato prima, al testo stesso di Molnàr, da un lato, alla cronaca, dall’altro. È autore dalle misurate atmosfere, l’ungherese, che di certo non dileggia i personaggi suoi più del lecito, non ferendo mai l’ironia sua più d’un innocuo scherzo, d’un pesce d’aprile inoffensivo: renderlo adeguato all’oggi ben più ricco di tinte forti e senza sfumature avrebbe portato senz’altro a tradire lo spirito della scrittura che, evidentemente, in questo è sì, un po’ datato, avendo senz’altro – non volevo dir la frase fatta ma tant’è – la realtà superato la fantasia. E di certo non sarà l’ultima volta.