
Nonostante da anni sia indiscutibilmente uno dei pezzi pregiati del teatro italiano, stupisce come Saverio La Ruina non goda di altrettanta gloria al di fuori della ristretta cerchia del circuito teatrale italiano.
La Ruina infatti rientra tra quegli artisti che si possono ammirare spesso solo in certi teatri off, piccole sale fuori dai binari classici dello spettacolo da botteghino. Di questo un po’ ne godiamo, e inconfessabilmente preferiamo così, anche se meriterebbe molto di più.
Il suo è un teatro-racconto, una partitura narrativa che attinge da storie millesimali del passato recente, dal gusto agrodolce del sud Italia.
Una monografia, composta da quattro spettacoli dell’attore calabrese, gli è stata dedicata nei giorni scorsi dal Teatro Metastasio di Prato nell’intimo Magnolfi.
Tra le perle in programma la nostra scelta cade sul pluripremiato Dissonorata – Un delitto d’onore in Calabria.
Il racconto, o meglio lo cunto, scritto e interpretato in un calabrese stretto e asciutto, narra una vicenda d’onore. Luogo della tenzone è l’Italia del sud, tra la Basilicata e la Calabria, terra di pastorizia e agricoltura, dipinto verista del primo dopoguerra.
Al centro troviamo una ragazza, ligia al dovere, a guardia delle pecore e sempre a testa china a contar pietre, perché non si pensi che sia una di “quelle”.
L’estenuante attesa che la sorella maggiore venga chiesta in sposa, sbloccando le richieste per le altre più giovani a seguire, e lo spauracchio di rimanere zittellona a vent’anni senza marito. Lei che uno spasimante l’aveva. Finisce per incontrarlo di nascosto, con l’ingenuità di chi fino ad allora ha avuto come scuola capre, pecore e mucche. Si ritrova abbandonata dall’amato e “dissonorata” in pancia e spirito.
La famiglia rimedia col fuoco l’onore oltraggiato, ma il miracolo di una nascita salvifica si compie ugualmente, nel giorno di Natale, come Gesù “il santo più importante che c’è”.
Il nascituro porta con sé la speranza e un nome, Saverio, che dona al racconto un fugace bagliore autobiografico.
Una storia piccola, una delle tante, che può sentirsi raccontare chi ha la fortuna di avere nonni anziani provenienti dal sud. Ma non solo.
Lo spessore drammaturgico porta in seno una vorticosa musicalità, parole contratte che scivolano via come un canto.
Il dialetto calabrese stretto di La Ruina può sbarrare la strada alle traduzioni mentali, ma dischiude un mondo scomparso e atavico a chi gli si abbandona. Affiora una figura femminile percepita come fonte di sventura già dalla nascita per i padri padroni dell’epoca; fragile, sgombra di velleità e priva d’istruzione, soggiogata a regole e restrizioni che oggi valicano ogni diritto. Niente di meno di quello che ancora regna in alcune culture straniere.
Un testo di pregevole bellezza che non rinuncia all’ironia e al surreale per condannare i crimini dell’epoca. Il flusso di parole di La Ruina si fonde agli strumenti di Gianfranco De Franco, in un continuo fil rouge musicale colmo di pathos.
Con un abito da donna di casa d’un tempo, sopra maglia e pantaloni maschili, sempre seduto, tra luce ed ombra, Saverio La Ruina misura il gesto e le intenzioni, e con finezza estrema attinge al vero in una sublime interpretazione. Per chissà quale formula magica o alchimia, di fronte al pubblico si materializza lei, l’innocente “dissonorata”, con i segni indelebili sulla pelle, che prova gioia ancora per la vita.