
[rating=2] La sala del teatro San Salvatore di Bologna si è trasformata, per lo spettacolo “Edipo liberato” di Michele Collina, in un enorme corsia di ospedale psichiatrico: alcuni pazienti sono tenuti sotto controllo da infermiere dotate di manganello che non vanno troppo per il sottile, altri sono dentro una specie di gabbia sul palcoscenico, con movimenti ripetitivi e alienanti ma comunque apparentemente liberi.
Mentre il pubblico trova posto e si accomoda, gli attori sono già nei loro ruoli e vi dovranno restare per un bel po’. Questo, oltre a far calare l’attenzione dello spettatore che entra per primo, appesantisce il tutto, dato che non è facile mantenere la tensione così a lungo. Forse era meglio “compattare” il pubblico nel foyer e farlo entrare tutto in una volta, accompagnandolo al posto con qualche pretesto?! Quando inizia lo spettacolo vero e proprio, la situazione iniziale viene supportata da un tappeto di registrazioni vocali e rumori, e l’idea dell’interazione diretta dei matti con il pubblico (tipo Living Theatre) è indovinata.
Due aiuto regista, un dottore e una dottoressa, ci spiegano che assisteremo ad uno spettacolo teatrale di un regista che ovviamente non si presenterà. Poi tutto si fa buio e, dopo qualche secondo di troppo, fa il suo trionfale ingresso un soldato delle SS che introduce i vari personaggi e fa da presentatore della serata. Inconsistente l’identificazione del pubblico con un comitato medico che osserva lo spettacolo organizzato dai pazienti, perché rende lo spettatore non protagonista ma solo appunto spettatore, mentre con il Living Theatre si strizza continuamente l’occhio al suo coinvolgimento diretto.
Quasi niente del mito di Edipo verrà raccontato, la storia dell’eroe che uccise suo padre per poi giacere con la madre è solo il pretesto per parlare della pazzia in generale: dalle piccole e grandi manie fino a chi sente le voci e chiede silenzio per poterle ascoltare, passando per il visionario e le personalità multiple. Paradossalmente il protagonista Edipo è immobile su un lettino nel mezzo della scena e vi resterà fino a quando non saranno gli altri pazienti a crocefiggerlo nel finale. L’SS, le infermiere con manganello, l’Edipo crocefisso e la gassata finale che uccide i matti in rivolta ci fanno respirare tanta repressione verso i pazienti ed i loro impulsi, tanta voglia di farli sparire, di nasconderli invece di comprenderli ed aiutarli.
Recitazione con alti e bassi: “alti” come alcuni matti, bravi nei movimenti più che nelle parole e con una buona interazione col pubblico (fra loro sicuramente la ragazza incinta), “bassi” nelle infermiere (che quando smanganellano sono concentrate ma altrimenti non sono neutre come dovrebbero) e “strapiombi” negli aiuto regia (con un triste siparietto del dottore che ci prova con la dottoressa…). I personaggi risultano ben studiati, anche se non tutti hanno metabolizzato la follia e sono pronti a trasmetterla a chi li osserva: i movimenti impacciati e contorti delle mani, la mimica facciale, le urla improvvise mostrano la pazzia ma non la fanno “sentire”. Sono facili da fare, ma risultano soltanto urlati e niente più. Non a caso i personaggi più riusciti sono quelli che bisbigliano, che guardano il pubblico negli occhi e che usano il proprio corpo per trasmettere incertezza, indeterminazione, pulsioni contrastanti, follia appunto.
Uno spettacolo che stordisce il pubblico e tende a disorientarlo, che osa molto e di questo ne va dato atto, che spazia e sperimenta ma che talvolta si perde in “piccolezze” (come ad esempio le pause senza motivo, le intenzioni degli attori, ecc), particolari fondamentali che fanno perdere la concentrazione dello spettatore, già messa a dura prova dall’interazione diretta con gli attori.
Interessante nel finale il fatto che, dopo il gas sterminatore, non vedremo più i pazienti, saremo accompagnati fuori (anche qui dopo una pausa interminabile) dalle infermiere. Ormai i malati sono stati eliminati e nascosti: il nostro scopo è quindi raggiunto?! Carina l’idea di lasciare il CD agli spettatori all’uscita da teatro, una sorta di antidoto a quel gas letale che abbiamo respirato anche noi e che ha sradicato la pazzia da quel luogo: contiene le voci dei malati dell’inizio dello spettacolo, come a ricordarci che non sono del tutto spariti e che, un po’ come avviene nei vaccini, la medicina nasconde il male che vuole curare.