
“una pulce cammina sul muro
per mangiare del pane duro
troppo duro da mangiare
per sfamarsi come fare (…)”
Sfila sul proscenio un vecchietto con andatura affaticata, da un ginocchio rimessosi a seguito di uno sparo: ferita sul lavoro. Canta e racconta con voce e parole similmente balbettanti per gli anni e le vicende della sua vita. Una salone con pavimento a scacchiera bianco nero, uno scrittorio, una sedia davanti e un’altra dietro sul lato sinistro del palco e un’altra ancora forse d’attesa sul lato opposto. Le luci sono ocra e in fondo a far scena oltre le quinte rigorosamente grigio lavagna, un tavolone con faldoni di pratiche affastellate l’una sull’altra, tantissime: sono anni e anni di attività.
E’ il tenente Jil Pontoise. Fa freddo e piove i suoi acciacchi mostrano i segni del tempo si lamenta con poco fiato. Il grande attore, regista e quindi interprete Gabriele Lavia mette in scena “Les lois de la gravité” di Jean Teulé, testo bello, dalle tematiche facilmente riferibili alle problematiche dei nostri giorni. Il passare delle ore se non delle mezz’ore è scandito dal passare del treno sui binari e da un orologio che segna le 22,20. Accomoda il mazzetto di fiori rossi, che reca in mano, in un piccolo vasetto sulla scrivania e ci si siede dietro, non prima di aver gridato “Antoine”.
Eccolo il suo attendente Enrico Torzillo, figura non primaria, ma davvero preciso e reale in tutto il suo incedere, a lui chiede un caffè nero ed amaro e gli sconsiglia viepiù volte a mo’ di leitmotiv “non lo fare questo mestiere, meglio fare il barista e con le mance fai tanto nero…”. Si “il nero” un altro ritornello nei pensieri del nostro commissario di polizia. A fondo palco entra una donna con voce stentorea, fare lento, ansimante e angosciata dai suoi sensi di colpa. Davvero irreprensibile interprete Federica Di Martino si ferma davanti ai faldoni e racconta che sono dieci anni che il marito è stato accusato di suicidio.
Era un uomo violento, che più volte brandiva minaccioso il coltello in mano, verso di lei quando rientrava a casa la sera “dammi i soldi ..o te lo ficco in gola..” urlava, e la signora mostra le cicatrici delle sue violenze sul suo braccio piuttosto che sul volto, visto il suo incline uso allo strumento sanguinario del quale si accennava nelle parole della vicenda. Abitavano all’undicesimo piano, egli molto spesso camminava sul parapetto del balcone manifestando il desiderio e la volontà di suicidarsi ma quella sera, ci si era seduto sopra, gambe penzoloni verso il vuoto. Ella ormai stanca e sfinita di tali comportamenti, cui si era aggiunto in una della tante sere lo strangolamento di una delle figlie, fu “lei” a buttarlo giù. Era omicidio non suicidio.
La legge di gravità è ineludibile. Nove e ottantuno metri al secondo, analizza il commissario a seguito della narrazione. Ma ne scaturisce evidentemente la legge di gravità dell’essere “esseri umani”. A che punto arriva al culmine e si manifesta? “Antoine porta un caffè dolce alla signora. E’ della macchinetta ma è caldo.” Quando quella notte sopraggiunsero i gendarmi per l’occorso aprirono il “caso” e lo chiusero poco dopo con la sentenza di “suicidio”, il marito si era gettato dal balcone. La signora, e lo mostra nei sensi di colpa che l’attanagliano, vuole cambiare in modo veritiero il verdetto della sentenza, ma mancano novanta minuti allo scadere della prescrizione per farlo.
Lo ripete c’è poco tempo! Ella nel frattempo aveva trascorso anni in un istituto di igiene mentale ed ecco sul parterre del commissariato mostra i vasetti di sabbia colorata che porta con se nel trolley che l’accompagna sulle tavole del Teatro Quirino. Li mette tutti per terra: “la sabbia è l’anima e la lacca il sentimento” e ne versa uno su un foglio sotto gli occhi attenti del nostro Jil e ne spiega il senso. La lacca fa si che la sabbia scivoli senza creare grumi. Questa la cura che porta nel suo bagaglio: man mano che il disegno sulla carta accuratamente laccata, mostra maggior nitidezza ne emerge chiaro e limpido il progresso dello stato interiore della paziente.
E’ capitato male il nostro tenente, superbo, grandissimo il nostro incomparabile attore, il giorno dopo sarebbe andato in ferie e il giorno seguente in pensione. Come l’attendente, la signora ha la precisione del tempo sbagliato, poteva passare per questa confessione il giorno prima o quello dopo avrebbe trovato un altro commissario di turno. E’ tardi, occorre fare in fretta. Jil Pontoise cerca di distoglierla ormai il caso è chiuso: “ è suicidio”. Ma la donna non demorde e al tempo scaduto della mezzanotte e due, chiama “Antoine…porta tre caffè uno per me, uno per la donna e uno anche per te” e gli consegna la carta che lo incarica di portare in cella n.3 quella con balconcino, la signora con la denuncia di omicidio, come desiderato.
Lo spettacolo con il jingle d’intro è finito. Violenza sulle donne e prescrizioni i temi scottanti e in una vicenda non allegra, l’ironia di chi fa della scena la sua migliore dimora, l’attore, crea momenti anche di sorriso. Inevitabili tanti applausi, ma il teatro ancora non è pieno, se in momenti di cultura, fa distensione ecco che gli spettatori apprezzano. Non un brusio in sala, solo attenzione e pertanto la messa in scena ha vinto.