
No, non è il nome di un calciatore iberico, magari ultimo acquisto di qualche club nostrano, seppure un omonimo centrocampista del tal “Reus” esiste sul serio, stando almeno a Wikipedia. Il “nostro” Juan Dominguez è un artista spagnolo che ha fatto del suo nome un emblema di autoaffermazione, o meglio, così ci fa credere fino alla prima oretta e mezza del suo spettacolo alla Pelanda, in seno allo Short Theatre, lo scorso sei settembre.
In uno spazio spoglio animato solo da un sottile schermo rettangolare sopra la testa, dove scorre la traduzione delle sue parole (ecco spiegate le poche stelle per l’allestimento), il performer inizia a raccontarci la semplice storia di sé stesso, del suo chiamarsi appunto Juan Dominguez, giocando sulle assonanze e i richiami fonetici di quel nome che non poteva essere diverso. Il suo rapporto con il sesso, le sue nipotine troppo chiacchierone che però si zittiscono alla promessa di dieci euro abilmente sganciati dallo zio, in cambio di un po’ di prezioso silenzio, delle sue partner che lo scambiano per Buddha durante l’amplesso, della passione per il gelato. Ecco il gelato, sarà un caso ma proprio mentre il calo d’attenzione inizia a strisciare piano nella sala e sentiamo salire sui polpastrelli l’ignobile lontananza dallo smartphone, ecco che il buon Juan ha la soluzione. In quattro e quattr’otto parlando dei silenzi scambiati con le sue nipotine mentre si cibano avide del loro gelato, appaiono due lunghi tavoli in scena e l’artista invita il pubblico a mettersi in fila ai lati per prendere il proprio gelato, al pistacchio o nocciola, realmente offerto agli spettatori.
In un attimo siamo tutti sui tavoli a chiedere la nostra pallina preferita, già pronti a condividere quel minuto di silenzio fra una leccatina e l’altra con Juan. Ulay non spunta da nessuna parte e noi continuiamo a condividere silenzio e gelato colante nel caldo torrido dello Studio 2.

Ormai sazi e con il picco di zuccheri arrivato a rianimare l’attività neuronale, Juan è pronto a sferrarci il colpo finale: tutto lo spettacolo è una finzione, inevitabile premessa per riuscire a raggiungere indisturbato un pubblico a cui proporre il suo messaggio “sovversivo”. E’ a questo punto che una macchinosa spiegazione che avrebbe potuto semplificarsi in due parole e invece dura quasi due ore, viene snocciolata non senza qualche difficoltà, per spingerci in buona sostanza a partecipare ad un esperimento: creare una rete telefonica attraverso la quale accettare di ricevere senza alcun preavviso un messaggio, letto il quale, saremmo obbligati a fermarci per tre minuti, interrompendo qualsiasi attività. Emergenze escluse.
Questo tempo sottratto al caos del quotidiano sarebbe secondo Juan restituito in qualche modo ad una sorta di astratto spazio poetico la cui riappropriazione dovrebbe costituire la mission di un progetto denominato Clean Room, che se non altro sarebbe uno splendido spin-off per una sit com. O questo almeno ci è sembrato di capire. Qualcuno inizia a fuggire dalla sala, si intravede qualche palpebra calante, Juan prende a parlare di libri regalati e qualcosa di simile ad un flash mob ma più “poetico”, ormai è tutto confuso. Alcuni accettano, altri vanno via, ma col sapore in bocca del gelato, peraltro di Pompi nientedimeno… Chissà se Juan sapeva che l’hanno comprato i cinesi…