John Gabriel Borkman, ritratto di famiglia in un inverno

Al Teatro Mercadante – Teatro Stabile – di Napoli in scena fino al 16 dicembre "John Gabriel Borkman" di Henrik Ibsen, per la regia di Marco Sciaccaluga, con Gabriele Lavia, Laura Marinoni, Federica Di Martino

Gabriele Lavia, in piedi sul tavolo nero del salotto di casa, è John Gabriel Borkman, e scioglie un peana che sembra un canto: non la canzonetta consolatoria e irridente che spesso gli viene alla labbra, né quella di Tom Waits che ipotizza Dio in viaggio d’affari, né, ancora, la Danza macabra di Saint-Saëns che la giovane Frida gentilmente gli suona nei lunghi pomeriggi d’inverno al pianoforte – la colonna sonora di questa pièce, scelta da Andrea Nicolini, è veramente significativa – il protagonista intona invece qui il suo canto d’amore, l’elegia della propria vita, dedicato all’unica cosa che veramente è capace di scaldargli il cuore: il denaro.

Siamo a Napoli, al Teatro Mercadante, dove da ieri sera e fino al 16 dicembre è di scena il John Gabriel Borkman di Ibsen, per la regia di Marco Sciaccaluga. Fin dall’inizio la scena – uscita, come i costumi metà novecento, grigi e austeri, dalla matita di Guido Fiorato e veramente bella e importante – ci introduce in un mondo che, pur concedendo ancora qualcosa al decoro borghese, risulta tuttavia disastrato e claustrofobico: la stanza di Gunhild, la moglie di Borkman resa come meglio non si potrebbe da una rancorosa e depressa e acida, in patente sospetto d’alcolismo da casalinga frustrata, Laura Marinoni, ha soffitto oblungo e asfissiante, basso e reso ancor più interminabile nell’apparenza sua perché attraversato da lunghe, lunghissime, smisurate linee (fibre?, doghe?) che, come in una antica litografia, chiaroscurano la scena, restituendo all’occhio di chi sta in platea l’impressione d’una spropositata e abnorme profondità e insieme d’angustia e d’opprimente fame d’aria.

Il motivo delle linee, o fibre che dir si voglia, si ripete, ma con forte connotazione ondulatoria, sulle pareti, su cui si aprono quattro porte nere, simmetriche, due per lato; in fondo un nulla oscurato e opaco fa presagire niente di buono, nella palpabile angoscia che genera un buco nero d’ignota origine e d’ambigua fine, maelstrom pronto ad ingoiare uomini e cose. Così le luci, di Marco D’Andrea, basse all’inizio, poi sempre più intense man mano che si dipana la vicenda, dipingono – è il caso di dirlo – ombre ansiose sulle pareti, parvenze di figure umane e di mobili bianchi, un letto singolo, alcune sedie, di cui una, capovolta a terra, inganna i sensi, apparendo come una sorta d’incongruo fiore bianco al centro della scena, quasi un merletto nel provvisorio e improvvisato ricamo delle gambe e delle arcuate traverse.

Sembra di stare nel ventre della balena come Giona, in bilico sull’orlo dell’abisso, oppure, meglio, immaginando le linee come venature del legno così care al design nordeuropeo, all’interno, o alle radici, di un albero enorme ed incongruo, un baobab o una sequoia in cui, come gli elfi delle favole, abiti la famiglia di Borkman, che in fondo in danese vuol dir corteccia – un modo di dire, dalle parti loro, per indicare un cuor di pietra.

Trasporta poi, Sciaccaluga, la vicenda, dall’originale fin de siècle nutrito di Nietzsche e nascenti nazionalismi in festosa attesa del disastro, a un universo bianco e nero da film americano degli anni quaranta o cinquanta del capitalismo imperante e vincente, ritratto di disfunzionale famiglia in un (gelido) inverno come potrebbe essere quello descritto da un regista come Frank Capra una volta eliminata la dorata vernicetta dolciastra di consolatoria maniera e lo scontato happy end.

Attende forse il figlio Erhart, la sciatta padrona di casa, arriva invece, e non si vedevano da lungo, troppo tempo, la sorella gemella Ella, che Federica Di Martino disegna con i tratti insieme gelidi e caldi dell’amorosa zitella, dell’elegante donna che scopriremo malata ma che, almeno in apparenza, sembra enormemente più vitale dell’arcigna e spiacevole sorella: hanno carne e sangue, da un lato, le due gemelle, possiedono e regalano vita propria, personaggi vivi del teatro verista e borghese, dall’altro sembrano, tuttavia, anancasticamente, classiche facce della stessa medaglia, ossessivo e nevrotico eterno femminino che ricorre, nelle diverse derivazioni, in tutta l’umana rappresentazione delle cose, archetipo della donna nel suo ingannevole farsi e mutarsi.

Al piano di sopra, non esce per tutto il primo atto, ne sentiamo – lo sentono anche le due donne al piano di sotto – il rumoroso e nervoso e tormentoso andirivieni intorno al tavolo, al piano di sopra sta il “Presidente”, lui, il protagonista che dà il nome al dramma e alla famiglia: John Gabriel Borkman è Gabriele Lavia alle prese con un personaggio che, certo, è chiuso anche forse più degli altri nella “corteccia” protettiva della sua letale nevrosi, ma che risulta, alla fine, perfino un po’ umanamente addolcito nel suo quasi ingenuo – non è forse così per i tanti della stessa risma che le cronache finanziarie e politiche ci restituiscono? – “donare” al mondo la sua singolare capacità, che è quella di vedere soldi imprigionati dove gli altri vedrebbero solo opacità, e lavorare, lavorare, lavorare per renderli liberi, quei capitali, perché possano portare benessere a tutti, riscattando, lui, privilegiato strumento della storia, umile anello della macchina del progresso, da un passato di schiavi lavoratori delle profondità della terra, perché diventi, alla fine della bella favola, eroe titanico della mitologia del lavoro e del sacrificio.

Il suo regno, da otto anni a questa parte, uscito di prigione dove era andato a finire per appropriazione indebita, tradito da quell’avvocato Hinkel che lo aveva portato ai vertici della finanza per poi abbandonarlo ai rigori della legge, il suo regno è ormai confinato al suo salotto, che scopriamo essere effettivamente al di sopra della stanza di Gunhild, ne  vediamo il pavimento calarsi e manifestarsi avanti agli occhi nostri grazie a un ingegnoso sistema di cavi che lo deposita davanti alla scena precedente come un ponte levatoio sul fossato.

Qui tutto richiama in qualche modo la scena precedente, anche per antinomia: il pavimento, che rimane fortemente inclinato verso il boccascena, com’è ovvio faccia superiore del preesistente soffitto, è munito delle stesse linee che avevamo visto prima, che ora risultano allo sguardo più chiaramente come doghe di legno; i mobili, che prima erano bianchi ora sono neri, grande tavolo, sedie, il pianoforte sul fondo, un appendiabiti indossatore in primo piano; alle pareti, su quella che sembra una tappezzeria, sono stilizzati archi di cerchio come steli d’erba alta o di grano, in fondo, sulla parete, bianca, una porta.

Riceve, certo, poche visite, Borkman, ma il supporto dell’amico Foldal non manca mai, l’umile scrivano con velleità di drammaturgo reso con grande umanità e pietà da un eccellente Roberto Alinghieri, il padre della giovane Frida (Roxana Doran) che allieta Borkman al pianoforte, convinto, al contrario dell’amico, che da qualche parte, non sa dove, la donna giusta esista. È in questo colloquio, e più ancora nella drammatica e superba scena seguente tra Ella e Borkman che affiorano, come relitti spinti dalla corrente, riesumati come cadaveri che il ghiaccio aveva chiuso e conservato, desideri repressi, antiche colpe, luci ormai spente, ombre che avanzano, il gelo che attanaglia, la malattia di Ella, la morte, antichi peccati.

Borkman rinunciò all’amore di Ella perché Hinkel voleva Ella, gli fu esplicitamente chiesto dall’avvocato, Borkman rinunciò all’amore come il nibelungo Alberich per la brama dell’oro maledetto, fece ciò che nessun sano di mente si sognerebbe mai di fare, peccò di un peccato senza remissione e ora, ora rinuncerebbe anche al figlio, non è che sia un gran sacrificio, abdicherebbe anche a perpetuare il cognome, per darlo ad Emma che l’aveva adottato quando Borkman era finito in prigione, surrogato di una maternità desiderata e incompiuta, estrema finzione borghese, occorre, allora, scendere – come in un notturno Nibelheim dell’anima – precipitarsi finalmente da Gunhild, lasciare il proprio regno, confine della coscienza e della storia, convincerla, persuaderla, costringerla.

Quando poi arriva anche Erhart (Francesco Sferrazza Papa) le ragioni degli adulti, così centrate sui valori di cui ciascuno di loro si fa portatore, la comprensione di Ella, il dovere di Gunhild, il lavoro di Borkman, valgono a poco, il giovane ha altri piani, è alla ricerca di una felicità che appare, in verità, solo fuga dall’oppressivo mondo dei genitori, così affollato d’ombre e freddo. Il Sud dell’Europa, invece, l’attende, col suo sole e il suo calore, insieme a Fanny Wilton (Giorgia Salari), amica di famiglia in cui cerca probabilmente una madre amante, dopo essersi sottratto al dispotismo delle due madri: una storia d’amore quasi rabbecciata, che non implica alcun progetto di vita, alcuna ipotesi esistenziale, anzi caricata d’un aspetto obliquo e malsano dato dalla presenza, in fuga con i due amanti, della giovane Frida.

A sottolineare l’improvvisa presa di coscienza di Borkman, il cambio di scena verso l’originario quarto atto avviene a vista, al contrario dei cambi precedenti, l’albero-casa è invaso da una tormenta di neve – come dalla primavera la casa sul frassino di Sieglinde quando Sigmund estrae Notung dal tronco – “dentro” e “fuori” perdono di significato, come pure “palco” e “platea”, visto che gli attori rompono violentemente la quarta parete, in un turbinare di una tempesta che è interiore ed esteriore. Quando infine si placa la natura, quando un pianoforte ormai abbattuto diventa d’un tratto una panchina semisommersa dalla neve, alla sommità d’un’irta ascesa bianca, solo il gelo dell’oro e del ferro attende il protagonista, mentre le due sorelle alla fine si ritrovano, in una scena potente e allucinata, abbacinante nello splendore della notte e della neve, nella contemplazione dell’ormai conquistata immobilità dell’inverno e della morte.

 

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Attori
Drammaturgia
Allestimento scenotecnico
Pubblico
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john-gabriel-borkman-ritratto-di-famiglia-in-un-invernoJOHN GABRIEL BORKMAN <br>di Henrik Ibsen <br> <br>versione italiana Danilo Macrì <br>regia Marco Sciaccaluga <br>con Gabriele Lavia, Laura Marinoni, Federica Di Martino, Roberto Alinghieri, Giorgia Salari, Francesco Sferrazza Papa, Roxana Doran <br> <br>scene e costumi Guido Fiorato <br>musiche Andrea Nicolini <br>luci Marco D’Andrea <br> produzione Teatro Stabile di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Nazionale di Genova,Teatro della Toscana – Teatro Nazionale <br>durata: 2 ore e 20 minuti più intervallo <br>in scena dal 05 al 16 dicembre 2018 <br>Napoli, Teatro Mercadante, 05 dicembre 2018